Exultet, il Fiano senza fumo (2): la verticale

Concludiamo oggi la nostra interessantissima chiacchierata con Luigi Moio, professore di enologia, grande wine maker e produttore in proprio.
DoctorWine: Quintodecimo non è a conduzione biologica
Luigi Moio: ‘Biologico' è un termine improprio nel vino, la fermentazione alcolica è uno dei processi fondamentali della biologia. Poi il termine ‘lotta biologica', in senso stretto, è indicativo del rapporto tra predato e predatore, tra gatto e topo, tra leone e zebra. A Quintodecimo le vigne sono veri e propri giardini in cui ogni pianta è curata nel minimo dettaglio per ottenere il frutto migliore, senza l'impiego di prodotti dannosi per la pianta, per l'uomo, per l'ambiente, e senza impiego di diserbanti e di concimi. La gestione del terreno è completamente meccanica, con significative integrazioni manuali, e la fertilità del suolo è sostenuta mediante idonee pratiche agronomiche come inerbimento, trinciatura, sovescio. In viticoltura sarebbe più appropriato parlare di sostenibilità. Ecco: la sostenibilità ambientale è una cosa davvero molto seria e importante. E fare agricoltura sostenibile, per esempio, significa anche usare lieviti selezionati. Con lieviti che fermentano bene ad alte temperature si risparmia l'energia necessaria a raffreddare, e si inquina di meno il pianeta. Viceversa con lieviti che fermentano perfettamente a basse temperature non è necessario sprecare energia per riscaldare in ambienti freddi. Gli esempi sono tantissimi di come le biotecnologie possono essere di concreto aiuto alla sostenibilità ambientale. E poi non è vero che ‘bio' è necessariamente ‘pulito'. Ma lo sa che in certe fecce possono generarsi micotossine, che sono pericolosissime? Le micotossine sono tra le molecole più dannose alla salute umana e sono prodotti naturali! Ma lo sa quale è il problema di fondo?
DW: Mi dica
LM: Che in Italia esiste una profonda cultura antiscientifica. E che pochi fanno il proprio mestiere.
DW: Tutti parlano dell'eccessivo potere della tecnica enologica, ma c'è una certa ritrosia degli enologi a confrontarsi bicchiere alla mano con i giornalisti enogastronomici. O sbaglio?
LM: Non so fino a che punto ciò sia vero, è bello confrontarsi e bisogna farlo. Ma spesso i giornalisti enogastronomici italiani non si limitano alla sola descrizione sensoriale del vino, come fanno in Francia. E' come se mancasse umiltà. Spesso si percepisce una certa ideologizzazione.
DW: Restiamo sulla nostra categoria. Molti degustatori tendono a correlare un certo senso di naturalezza espressiva di alcuni vini a pratiche di vigna e cantina non invasive. È cosa lecita, oppure si possono “costruire” in cantina vini che mostrano naturalezza espressiva alla beva?
LM: “Invasivo” significa apportare modifiche sostanziali. L'enologo bravo deve essere l'assistente di un processo: appunto assiste e aiuta l'uva a diventare vino, limitando al massimo l'intervento antropico. Ma la vigna non produce direttamente bottiglie piene di vino, l'uva dev'essere vinificata in modo corretto, consentendo la sua semplice e naturale trasformazione in vino. E' necessario evitare, nel modo più assoluto, qualsiasi deviazione anomala che possa depauperare, degradare o mascherare con difetti d'odore la purezza espressiva dell'uva. I difetti d'odore, purtroppo, sono fortemente omologanti, è un'omologazione verso il basso perché sono sempre gli stessi in qualsiasi parte del mondo e annullano completamente l'eventuale legame con il luogo d'origine.
DW: Allora che cultura enologica dovrebbe avere un critico enogastronomico? Dove deve fermarsi?
LM: Non dovrebbe addentrarsi troppo, perché si tratta di questioni molto difficili anche per gli enologi esperti. Le variabili in enologia sono tantissime. Un giornalista dovrebbe limitarsi ad informare, senza preconcetti, senza ideologie. La degustazione deve semplificare, se non lo fa sfocia nel folclore. Io faccio sempre un esempio: degustare non è come descrivere il viso di una persona, in questo caso anche se non si è precisi nella descrizione, omettendo qualche carattere descrittivo, una persona può essere comunque riconosciuta tra una folla. Nel descrivere le caratteristiche sensoriali di un vino, invece, bisogna essere molto precisi, impiegando pochi descrittori ma oggettivamente evidenti. E' inutile, invece, azzardarsi in ipotesi sul lavoro che è stato fatto in vigna e in cantina.
DW: Allora diventa indispensabile fare una letteratura divulgativa dell'enologia, una cosa che spieghi l'enologia approfonditamente essendo digiuni o quasi di chimica. Si tratta di un programma attuabile?
LM: E' il mio sogno. Ma lo può fare chi produce conoscenza attraverso la ricerca scientifica. Purtroppo la divulgazione raramente è fatta dai ricercatori, perché in Italia non è utile a far carriera.
DW: Molti degustatori tendono a correlare i territori vinicoli migliori esclusivamente a note minerali nel vino. Lo Shiraz di McLaren è un frutto nero intensissimo. Non è gusto di terroir anche quello?
LM: Certo che lo è. Il terroir non è solo suolo. Ci sono il clima, il microclima, l'esposizione, l'uomo. La vegetazione che circonda la vigna. Il termine ‘minerale' è nato in Alsazia, essenzialmente per descrivere alcune note del riesling che come è noto è spesso caratterizzato da note di kerosene, dovute principalmente all'1,1,6-trimetil-1,2-diidronaftalene (TDN). Da lì il termine è stato adottato anche in Borgogna, ed associato spesso all'odore della pietra focaia, cioè la pietra adoperata per produrre scintille necessarie ad accendere la polvere da sparo. La pietra focaia più usata è la pirite, che sfregata con l'acciarino produce scintille. Ma la pirite è costituita da disolfuro di ferro, che se riscaldato emette una miscela di solfuri dal classico odore di “ridotto”. Quindi la nota di pierre à fusil, che ricordo negli anni trascorsi in Borgogna spesso veniva associata alla mineralità, non è altro che un sentore solfureo dovuto ad una lievissima riduzione che effettivamente ricorda anche odori terrosi. Naturalmente queste note immerse nella ricchezza aromatica dello chardonnay, o in Alsazia, del riesling, gewürztraminer, muscat, sono anche estremamente piacevoli. Da noi con il termine ‘minerale' la confusione regna sovrana. I minerali sono i costituenti della crosta terrestre, sono quasi tutti solidi a temperatura ambiente, presentandosi sotto forma cristallina. Il suolo, in senso stretto, non si sente in nessun vino al mondo, dato che i minerali non sono volatili e sono dunque inodori. L'odore che è possibile percepire annusando una pietra, per esempio uno scoglio nel mare, è dovuto alla eventuale presenza di contaminanti organici. Lo zolfo stesso è un non metallo inodore e insapore. La sua forma più nota e comune è quella cristallina di colore giallo intenso. Solo in seguito alla sua combustione avviene una reazione con l'ossigeno con produzione di anidride solforosa che, invece è odorosa. Vuole sapere la mia?
DW:Certo
LM: In uno studio condotto da un gruppo di ricercatori francesi della Borgogna che aveva lo scopo di comprendere come gli esperti concepiscano il carattere di mineralità, e se vi sia consensualità nel suo giudizio, è emerso l'assenza di una definizione sensoriale univoca e significativa per questo descrittore. Dunque il suo significato sensoriale non è del tutto chiaro anche se molto di moda, perché probabilmente richiama un rapporto quasi fisico con un luogo soddisfacendo quella ricerca delle origini. Anch'io lo uso, ma associato maggiormente all'acidità, alla purezza sensoriale estrema, soprattutto in riferimento al vino bianco. La purezza incontaminata del minerale che sfida il tempo. Un vino con note minerali è per me un vino purissimo e incontaminato nel quale il processo di decadimento olfattivo è rallentato al massimo, e lo spazio temporale della vita del vino nel quale è possibile riconoscere i caratteri sensoriali riconducibili all'uva di origine e, nel caso dei cru alla vigna di origine, è dilatato il più possibile.
La degustazione che segue è una verticale del Fiano di Avellino Exultet, un cru prodotto esclusivamente con le uve provenienti da una sola vigna di fiano (100%) che si trova a Lapio. Fermentazione del 70% in acciaio inox, 30% in barrique di rovere nuove.