Figlio di un grande viaggio
Ci sono vini, tanti vini, che sono figli di un luogo. Poi ce ne sono alcuni che sono figli di un viaggio. Oppure di uno scambio, ovvero un incontro tra culture.
Il Madeira è un po’ il capofila del secondo gruppo.
Il vino dell’isola che non c’è, (non) luogo del sogno e delle grandi aspettative.
Almeno per il pubblico degli appassionati italiani, per i quali ‘possibly the greatest wine in the world’ - almeno secondo il parere un tantino autorevole di Hugh Johnson - praticamente non esiste. Nonostante capacità evolutive in bottiglia infinite, testimoniate dai grandi importatori inglesi che vendono annate dell’Ottocento. Difficile trovarlo anche nelle migliori enoteche delle grandi città da noi.
Un vino creato in Europa, della quale l’isola di provenienza è estremità occidentale, dai marinai africani, che partivano dal Marocco verso le Americhe.
Un vino dal carattere gitano, verrebbe da dire, che questo carattere se lo è impresso nel dna attraverso la tecnica dell’estufagem, del riscaldamento volontario. Ad imitazione dei lunghi, torridi viaggi che in epoca moderna lo formarono e resero unico.
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