Cabernet Sauvignon Collezione De Marchi, il SuperCab (1)

Un viaggio a ritroso attorno a uno dei più grandi bordolesi italiani che è anche una indagine su uno dei termini - Supertuscan - più equivocati del vino.
Eppure ci fu un periodo nel quale il termine Supertuscan non era fuorilegge sul suolo italico. Cosa che forse lascerà basiti gli appassionati più giovani, abituati a inscatolarlo nel campo semantico dell’inautentico, dell’inattuale, quando non dell’artefatto.
Tempi nei quali il termine veniva utilizzato come testimone di una rivoluzione positiva, una liberazione dalla dittatura di disciplinari di produzione mal scritti, fatti su misura per compiacere produttori senza scrupoli e imbottigliatori ai quali della qualità non importava un bel niente.
Erano gli anni Ottanta e Novanta.
Un po’ come se, fra venti anni, i termini ‘vino biodinamico’ e ‘vino naturale’ dovessero essere associati a scorciatoie produttive, furbacchiate legate alla moda, tentativi di imporre gusti non piacevoli.
Ed è significativo come uno dei più rivoluzionari uomini del vino toscano (e dunque italiano tout court), Paolo de Marchi, a capo di tutto, qui a Isole e Olena, adesso sia percepito dagli appassionati come uomo della tradizione. Ma questa è un’altra storia.
Nato a Torino da una famiglia originaria di Lessona, cittadina viticola ai piedi delle Alpi, Paolo prosegue con la sua attività vinicola una tradizione secolare: già da metà Ottocento il cugino del bisnonno, Felice Sperino, produceva un fine Nebbiolo dalle vecchie vigne di Proprietà Sperino. Vigne abbandonate dalla famiglia dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il padre di Paolo acquistò Isole e Olena in Toscana. Era il 1956.
Da studente di Agronomia all’Università di Torino nei primi anni Settanta, Paolo lavorò come apprendista in California, assorbendo quell'atmosfera di cambiamento che trasformò la regione americana nella realtà attuale. Dopo la laurea, nel 1976, Paolo venne pienamente coinvolto nella proprietà di famiglia a Isole e Olena, concentrando i suoi sforzi nella ristrutturazione dei vigneti e perseguendo la sua idea di qualità.
Il principale interesse era il sangiovese, e quel capolavoro che è il Cepparello è il risultato del suo lavoro in questa direzione. Ma un interesse che non ne esaurisce l’attività.
Isole e Olena si trova al centro del Chianti Classico, sul versante occidentale, a metà strada fra Firenze e Siena.
La proprietà si estende per circa 320 ettari, dei quali 56 vitati a bacca rossa (con sangiovese, canaiolo, syrah, cabernet sauvignon, cabernet franc) e bianca (chardonnay, malvasia, trebbiano) e 15 ettari di oliveti, ad un'altitudine di 350-480 metri, su terreni composti prevalentemente da galestro, alberese e calcare.
Isole, l'attuale sede dell'azienda, divenne una vera fattoria nel Settecento, ma solo a metà degli anni Cinquanta la famiglia De Marchi ne divenne proprietaria, insieme all’annesso borgo mezzadrile di Olena, uniti sotto il nome di Isole e Olena.
In particolare, negli anni Settanta i primi sforzi lavorativi furono incentrati sulla selezione clonale aziendale di sangiovese e la conseguente vinificazione in purezza, al fine di comprenderne appieno le potenzialità. Il risultato fu un vino, il Cepparello, poi divenuto – come si accennava – il vino di punta dell'azienda, e che prende il nome da un piccolo ruscello che scorre a valle delle vigne.
Contemporaneamente – anticipando ciò che in seguito sarebbe stata chiamata 'zonazione' dagli esperti – furono mappati i terreni aziendali, attraverso lo studio delle caratteristiche di ciascuno per individuarne la vocazione alle diverse varietà di uva. La maggiore conoscenza delle relazioni tra terreno e genetica dettò i nuovi criteri da seguire per gli impianti: al sistema di coltivazioni promiscue tipiche della mezzadria fu affiancata la sperimentazione di moderni sistemi a più alta densità. Contemporaneamente vennero selezionati e reimpiantati i cloni aziendali selezionati più adatti e furono ricostruiti i vecchi terrazzamenti nel totale rispetto del suolo. Per questo lavoro Isole e Olena è da annoverare nel ristretto numero di aziende che hanno apportato una decisiva svolta qualitativa nel Chianti Classico.
A seguito del lavoro svolto, l'uvaggio storico del Chianti Classico fu gradualmente modificato, eliminando le uve bianche ma conservando il canaiolo - anche questo proveniente da selezionati cloni aziendali - e aggiungendo piccole percentuali di syrah, piantato a inizio anni Ottanta, per dare al taglio finale equilibrio e armonia. Così il Chianti Classico diventò progressivamente un vino più corposo e adatto all'invecchiamento, pur conservando il suo carattere tradizionale di vino fine, fresco e piacevole da bere.
A metà degli anni Ottanta furono piantati cabernet sauvignon e chardonnay che, assieme al syrah, furono vinificati in purezza, e etichettati nella linea chiamata “Collezione De Marchi”, successivamente variato in “Collezione Privata”.
DoctorWine: Non crede che negli ultimi anni i bordolesi toscani abbiano riguadagnato la meritata reputazione?
Paolo De Marchi: La reputazione varia in base alle zone. Credo che vadano distinte quella classiche da quelle nuove. Non credo che le zone costiere, con Bolgheri, Suvereto, ecc…, abbiano realmente mai perso reputazione: rappresentano una costante stabile in Toscana. Discorso diverso per quelle classiche, come il Chianti. Effettivamente nel primo decennio degli anni Duemila abbiamo visto un calo di interesse, contemporaneamente a quello che molti chiamano “il ritorno del sangiovese”. Non credo che in Chianti il ritorno di attenzione sui cabernet sia generalizzato, ma che riguardi alcune etichette in particolare. A Isole e Olena ho da sempre avuto il sangiovese come interesse e obiettivo prioritario. Le indubbie necessità di aiuto durante il lavoro effettuato negli anni Ottanta mi avevano spinto ad impiantare syrah, proprio per cercare qualcosa che in un assemblaggio rispettasse di più i nostri vitigni.
DW: Se per aiutare il sangiovese impiantò syrah, per quale motivo impiantò cabernet?
PDM: Per tenere la porta aperta a un cambio di disciplinare che all’epoca sembrava orientato a forzare verso l’uso dei bordolesi. Per fortuna ciò non è avvenuto. Confermo che, fortunatamente, il nostro Cabernet Sauvignon è senza dubbio tra quelli che godono del ritorno di interesse verso i bordolesi.
DW: Sicuramente. Ma resto dell’idea di un visto in pesante credito di fama.
PDM: Sono d’accordo su questo punto. A fine anni Novanta il Cabernet Sauvignon stava rischiando di dare ombra al Cepparello. Non avevo mai voluto dare al Cabernet Sauvignon un prezzo superiore al Cepparello, poi vedevo regolarmente sul mercato e sugli scaffali un prezzo anche 30-40% più alto. È il potere del gusto internazionale su quello dato dal sangiovese. Ma è una cosa che io non ho mai voluto ben accettare. Siamo in Chianti e il sangiovese deve essere rispettato. Con l’uscita del Cabernet Sauvignon 1997 e gli altissimi punteggi, ho deciso di “nascondere” un po’ il vino, di non metterlo nelle degustazioni e di evitarne la promozione. Il messaggio era e resta sempre lo stesso: che il nostro vino di punta è il Cepparello.
A domani, per la seconda parte dell’intervista a Paolo De Marchi e la verticale del Cabernet Sauvignon Collezione De Marchi.