I suoi primi quarant’anni

di Daniele Cernilli 03/09/15
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I suoi primi quarant’anni

Dire che il tempo passa velocemente rischia di essere una banalità. Sta di fatto, però, che quando passano quarant’anni e ti sembrano molti di meno vuol dire che si sta decisamente invecchiando. Più l’età avanza, più gli anni rappresentano una frazione sempre minore di vita, purtroppo, e danno la sensazione di correre sempre più velocemente.

Questi cupi pensieri mi venivano in mente nel momento in cui ho scoperto che nel 2015 il Vintage Tunina di Silvio Jermann avrebbe compiuto il suo quarto decennio di esistenza. Silvio lo produsse per la prima volta con la vendemmia del 1975, quando aveva appena 21 anni (così saprete quanti ne ha, una piccola vendetta dovuta al fatto che se li porta molto meglio di me, che ne ho altrettanti). Aveva studiato a San Michele all’Adige, in Trentino, suo padre Angelo gli aveva messo in mano una parte della cantina, e lui, subito, s’inventò un vino che definire innovativo sarebbe una diminutio. Fu una vera rivoluzione tecnica.

Intanto Silvio voleva recuperare la tradizione dell’uvaggio, che in Friuli è sempre stata alla base della produzione vinicola. Mettere insieme uve di tocai (friulano, vabbè), ribolla gialla e malvasia istriana era cosa comune e precedente rispetto alla pratica del monovitigno che qualche anno prima dei giganti quali Mario Schiopetto, Livio Felluga e Vittorio Puiatti avevano introdotto in modo deciso.

Poi c’era il vigneto dietro casa, sul Monte Fortino, nel cuore dell’isoletta Collio, un’enclave collinare circondata dalla pianura isontina, a Villanova di Farra, poco distante da Gradisca. Una vigna bellissima, dove c’erano diverse varietà, il pinot bianco, che poi si scoperse essere chardonnay, il sauvignon, il riesling renano, poi la ribolla gialla, la malvasia istriana e persino qualche filare di picolit, che come c’era finito non si è mai saputo bene. Se uvaggio dev’essere che uvaggio sia, pensò Silvio. Perciò vendemmiò e vinificò tutte insieme quelle uve, fece fare la malolattica al vino, altra eresia per quei tempi, e mise il tutto in una vasca d’acciaio a riposare, per vedere cosa sarebbe venuto fuori.

Intanto con Anna, all’epoca sua moglie, inventarono un nome. Quel bianco era morbido, profumato, come un’amante. Allora pensarono al nome dell’amante più povera del grande Giacomo Casanova, la Tunina, bellissima contadina, come un bellissimo e femminile vino contadino doveva esser quello.
 
Il Vintage Tunina nacque più o meno così.

Dalla vendemmia del 1975 Silvio ne ricavò poche migliaia di bottiglie, in fin dei conti si trattava di un esperimento e chissà cosa ne sarebbe venuto fuori, poi papà Angelo chi lo sentiva se le cose andavano male? Se ne accorse però Gino Veronelli, che sulla lettissima rubrica che teneva su Panorama ogni settimana, dedicò alla Tunina un pezzo appassionato, dal titolo “Il Mennea dei vini”, alludendo al fatto che lasciava indietro tutti gli altri. Apriti cielo! I produttori più famosi iniziarono a dire che scrivere quelle cose di un vino bianco invecchiato un anno, prodotto in poche bottiglie e da un giovane viticoltore quasi sconosciuto era un affronto.

Per venderlo e per farlo conoscere ci volle un po’, è vero. Tanto che Silvio e suo padre ebbero dei dissapori e lui se ne andò armi e bagagli in Canada per due anni. Così nelle annate del ’76 e del ’77 non ci fu la Tunina, ma vista la qualità di quelle vendemmie non fu una tragedia. Ritornò e ricominciò nel ’78, mettendo a punto un paio di cose, anche sulla scorta dell’esperienza canadese, e da allora la Tunina è diventata un vino di culto. Oggi ne fa di più, quel vino è conosciuto in tutto il mondo, negli Usa è un mito, ad esempio.

Ma è sempre morbido e profumato come quella giovane contadina del ‘700, tanto cara a quel filibustiere di Giacomo Casanova.





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