Ciao Marina

Questo racconto vorrei dedicarlo ad una giovane amica che non c’è più. Si chiamava Marina Mariani ed era una promessa dell’enologia italiana. La conobbi nel 2000, durante un viaggio in Australia: l’aveva contattata Lorenzo Landi, anch’egli enologo, che all’epoca era poco più di un giovane di belle speranze. “Ho conosciuto anni fa una ragazzina che era un fenomeno. Molto appassionata, grande palato. So che lavora in una cantina delle Adelaide Hills, la Shaw and Smith. Siamo qui fermi a Sydney per tre giorni senza fare niente, perché non andiamo a trovarla?” Detto fatto, lui la sentì telefonicamente e poi partimmo per Adelaide. Alloggiammo all’Hilton, dove lei ci raggiunse telefonicamente dandoci le indicazioni per raggiungere la cantina. Quando arrivammo la trovammo intenta a fare travasi e quasi non ci dette retta. Stivaloni, due secchi di bentonite, uno per mano, e saliva su una scala per metterli nel vino da chiarificare, per stabilizzare le proteine ed evitare le casse, le “rotture”, che determinano velature permanenti. “Vieni giù, che pesano” le dico. E lei: “io sono anche un operaio di cantina, che ti credi?”.
Diventammo amici in un batter d’occhio. Lei, giovane, carina, all’epoca fidanzatissima con uno scrittore francese. Coraggiosa, visto che viveva da sola dall’altra parte del mondo guadagnandosi da vivere. “Però vorrei tornare in Italia. Ho i miei lì, in Valtellina, vicino Sondrio. Ogni tanto vorrei vederli.” Cercai di aiutarla chiamando amici enologi e produttori. Lei, che all’epoca aveva ventisei anni, si era laureata in agraria a Milano, poi aveva lavorato come stagista da Frescobaldi e da Planeta. “Ma quello che mi ha dato per primo un lavoro è stato David Powell, fondatore e proprietario di Torbreck in Barossa Valley: avevo assaggiato i suoi vini appena arrivata in Australia e avevo deciso che dovevo per forza lavorare per lui. Così mi presentai e glielo dissi. Lui dopo un paio di tentativi di levarmisi dai piedi, accettò, e per due anni ho vissuto lì, abitando in una casetta in mezzo al nulla e lavorando come una matta”. Le si illuminava lo sguardo quando lo diceva, tanto ne era orgogliosa. “Poi non ce l’ho più fatta e sono andata in una cantina più 'tranquilla', questa dove mi vedete ora”. Ci fece da guida, ci portò a vedere alcune aziende come Penfold’s e Chain of Ponds, quest’ultima di proprietà di Caj Amadio, abruzzese trapiantato in Barossa, che ancora aveva l’ufficio tappezzato con i poster del suo paesino innevato.
Tornati in Italia, dopo due mesi mi chiamò. “Ho trovato lavoro in Italia, i Bernau, signori tedeschi proprietari di Castiglion del Bosco a Montalcino, hanno bisogno di una mano in cantina. Arrivo tra due giorni”. “Caspita, e il tuo fidanzato?”“Quale fidanzato?” mi rispose. Il lavoro contava più di chiunque. Arrivò dopo due giorni, si stabilì in una bella casa in campagna, lontano da tutto e da tutti: “Ma non è un po’ isolata? Poi guarda che d’inverno devi fare sette chilometri di strada bianca per vedere anima viva...”. Ma lei era determinatissima. Chiamò di sua iniziativa Riccardo Cotarella, enologo maximo. “Lei deve venire qui a fare una consulenza. Dobbiamo fare il miglior Brunello del mondo. Possibilmente con tecniche rispettose dell’ambiente”. Le capitò la vendemmia del 2002, fecero miracoli ma non il miglior Brunello del mondo, dopodiché iniziarono i guai. I Bernau vendettero la cantina ai Ferragamo. Cotarella andò via e fu sostituito da Nicolò d’Afflitto, enologo di fiducia della famiglia, oltre che dei Frescobaldi. Dopo qualche mese lei decise di andarsene. “Non è più il mio progetto, non mi fanno fare altro che la cantiniera”. Mi disse amareggiata. Provò a trovare altro, le dette lavoro Gianni Brunelli, che sarebbe mancato di lì a poco, un uomo generoso e buono che faceva l’oste a Le Logge di Siena e il produttore di Brunello. Capitò l’annata 2003, difficilissima, poi la 2004, molto buona, l’ultima annata di Marina. Con Brunelli impostarono la Riserva, poi lei decise di lasciare di nuovo. Qualche delusione sentimentale, la lontananza dalla famiglia, quella solitudine con la quale prima scherzava ora iniziava a pesarle molto e a trasformarsi in depressione. Avevo provato a fare qualcosa per lei, Paolo Panerai editore e viticoltore, ed il suo fidato collaboratore Alessandro Cellai stavano mettendo su Rocca di Frassinello in Maremma, in joint-venture con Eric de Rothschild. Presentai loro Marina, lei e Cellai andarono persino a New York a conoscere Rothschild, al quale lei, che parlava un inglese impeccabile, fece un’ottima impressione. Bastava aspettare e tutto sarebbe andato per il meglio. “Stai tranquilla, vedrai che tutto andrà bene, la Maremma è più solare e sarai più vicina al mare che ti piace tanto” le dicevo in continuazione per telefono. “Qui sono sola, non ho nulla per me, chissà se stavolta sarà quella giusta. E’ un mese che non sento nessuno...”. Invece le cose stavano procedendo e alla fine del marzo del 2005 tutto si sarebbe aggiustato.
Ma alla fine di marzo Marina non sarebbe arrivata. In una terribile notte di un mese prima decise di lasciarci, morendo da enologa, mettendosi in bocca la cannula di una bombola di anidride carbonica, di quelle che servono durante le pratiche per l’imbottigliamento. Aveva appena trent’anni ed è la cosa più triste che abbia dovuto affrontare nel mondo del vino. Un racconto per ricordare il suo sorriso e il suo coraggio ci voleva proprio.