Salviamo il salvabile

Siamo in un bel pasticcio. Il mondo del vino di qualità da sempre è stato un preciso misuratore dello stato dell’economia. La curva dell’export di Champagne, ad esempio, è incredibilmente vicina a quella degli indici di borsa internazionali. Da noi la cosa è seria. Il nostro export ormai equivale quasi al consumo interno, e si avvicina molto al 50% della produzione. I nostri maggiori clienti, però, restano Germania e Stati Uniti, che insieme rappresentano quasi i due terzi dei circa 20 milioni di ettolitri che l’Italia esporta. Sui nuovi mercati, Cina, India, Brasile in particolare, noi siamo in grave difficoltà. Secondi non solo ai francesi, che in Oriente ci fanno semplicemente a pezzi, ma anche a Cile, Australia ed Argentina come minimo.
Ad Hong Kong, che attualmente rappresenta la porta della Cina, la Francia si aggiudica oltre il 50% del mercato, considerando anche l’export britannico, costituito quasi totalmente da vini di Bordeaux, mentre noi raggiungiamo a stento il 2%. In Cina va un po’ meglio, ma da un paio d’anni il Cile ha ricevuto un trattamento di favore per i suoi vini, che vengono tassati sensibilmente meno di quelli di altri paesi. In una situazione del genere gli enti pubblici preposti alla promozione del made in Italy, soprattutto alimentare, vengono liquidati. Buonitalia non c’è più, di fatto, e l’Ice sta chiudendo.
Si sentono discorsi farraginosi sull’eventualità di affidare alle ambasciate il compito della promozione, senza chiedersi quando mai altri paesi nel mondo abbiano fatto scelte simili, ma forse, e voglio sperare che sia così, si tratta solo di discorsi teorici. Il risultato allo stato attuale è che tutti continuano ad andare in ordine sparso. Consorzi, camere di commercio, gruppi di produttori collegati a specifici importatori, regioni, provincie autonome, case editrici. E chi più ne ha più ne metta. Il tutto senza una vera strategia generale, quella che mettono in campo, ad esempio, Francia ed Australia, e da qualche tempo anche Cile. Affrontare in questo modo i cosiddetti nuovi mercati, in paesi sterminatamente vasti, è semplicemente un suicidio annunciato.
La vera fortuna sta ancora nell’impressionante diffusione della ristorazione italiana all’estero, le vere ambasciate dell’agroalimentare italiano di qualità, e nell’intelligenza di molti medi e piccoli produttori italiani, autentiche microscopiche multinazionali, che riescono, sulla base di rapporti personali, a vendere i loro vini in decine di paesi esteri anche se la loro produzione spesso si attesta intorno alle 2 - 300 mila bottiglie all’anno. Il tutto molto spesso senza gli aiuti logistici e finanziari dei quali godono i loro concorrenti. E senza che qualche responsabile della politica agricola italiana vada, come hanno fatto i cileni, a trattare migliori condizioni per l’export vinicolo italiano in Cina, ad esempio.
C’era una vecchia canzone di Edoardo Bennato dal titolo “Salviamo il salvabile”. Ecco, l’appello che mi permetterei di fare è proprio questo. In un momento così critico proviamo a salvare le cose positive e se c’è rimasto un euro da spendere in promozione da parte dello Stato, che almeno sia usato con intelligenza, senza buttare via nulla, ed aiutando chi già lavora bene ed ha dimostrato con i fatti di meritare che l’Italia lo promuova come eccellenza vera, e non per clientele politiche.