Quello che non ho

Penso di essere un ottimo assaggiatore di vini, con grande esperienza, ma non ho l’autocompiacimento un po’ sadico di chi emette verdetti.
Ve lo confesso, quello che non ho è un atteggiamento da giudice. E anche in questo caso Fabrizio De André c’entra. Come la comprensione storica che non è molto di moda attualmente. Certo, giudico vini, ma mai persone, dò personalmente dei punteggi, e l’ho fatto ben prima di occuparmi di questo mondo, da professore di Lettere delle medie, dandoli a esseri umani e non a liquidi più o meno piacevoli. Ma sempre per capire, soprattutto, e mai per esercitare un potere personale, che mi ha più che altro imbarazzato quando mi è capitato di averlo in tempi passati. E mai per dimostrare di essere tanto bravo a farlo.
Intendiamoci, penso di essere un ottimo assaggiatore di vini, come ce ne sono alcuni altri in Italia e non solo, e questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per capire. Per capire ci vuole passione, metodo, conoscenza tecnica e rispetto per il lavoro degli altri. Il contrario di ciò che qualcuno pensa. E ci vuole rispetto per chi ti legge, che ha il diritto di pretendere trasparenza, anche se non necessariamente sarà d’accordo con i giudizi dati. Ci vuole buon senso, capacità di interpretare quello che un viticoltore o un enologo hanno provato a fare. Non bisogna saper suonare o cantare per apprezzare la musica, e capirla, ed emozionarsi. Così come non è necessario essere in grado di produrre un grande vino per riconoscerlo.
Certo, se si hanno conoscenze tecniche, esperienze degustative, se si sono “camminate” tante vigne e incontrati tanti produttori, tanti enologi, in tutto il mondo, il proprio punto di vista diventa più circostanziato, non è solo determinato da un’esperienza organolettica, e ha una profondità, se non un’attendibilità, diversa.
Capisco che questo possa non piacere a chi ritenga che sia la propria emozione la cosa più importante da esprimere, ma questo rischia di essere un atteggiamento un po’ infantile, una sorta di sottolineatura autoreferenziale della propria “utopia personale” più che altro, o un’alienazione etilica tesa a far essere interessanti agli occhi degli altri perché considerati “esperti”.
Quello che non ho è la certezza di essere “esperto”. È la mancanza di dubbi. È la difficoltà e l’attenzione con la quale dò un giudizio su un vino. Quello che non ho è l’autocompiacimento un po’ sadico di chi emette verdetti. Io provo solo a proporre punti di vista, aprendo discussioni, cercando un confronto. Quello che non ho è la mancanza di curiosità per chi non la pensa come me.