Le licenze enologiche

Al pari della licenza poetica, esistono alcune “licenze enologiche” che sono in grado di trasformare quello che tecnicamente è un errore in un ampliamento di qualità di un vino.
Cosa sia una licenza poetica lo sappiamo tutti. Credo che chiunque ricordi nel Sabato del Villaggio di Leopardi il verso che recita “riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore”, quando è ovvio che grammaticalmente “il” dovrebbe essere “lo”, perché la regola dice che davanti alla “z” bisogna usare quell’articolo. Questo però non rende meno bella la poesia, anzi, e le licenze poetiche vengono utilizzate proprio per rendere più incisivo ed emozionante il significato. Errori accettabili, insomma, e spesso anche geniali.
Mi veniva in mente tutto questo qualche giorno fa quando con un gruppo di amici, al Goccetto di Roma, abbiamo aperto alcune ottime bottiglie. Il Pinot Nero 2019 de La Pineta, il Morey Saint Denis Premier Cru 2016 di Domaine Dujac, il Barolo Riserva Vigna Rionda 2012 di Massolino, il Brunello di Montalcino 2011 di Capanna. Tutti vini splendidi, ben fatti tecnicamente, molto precisi e rappresentativi delle loro rispettive origini. Poi abbiamo voluto aprire l’ultima bottiglia rimasta di Montepulciano d’Abruzzo 2006 di Valentini, ed è cambiato il mondo. Croce Taravella, famoso pittore, appassionato di vini e cliente storico del Goccetto ha sentenziato “questo vino non ha la delicata perfezione di Raffaello, piuttosto mi ricorda lo stile irruente del Tintoretto”.
In un’occasione precedente il mio amico e grande degustatore Silvano Prompicai definì quel vino come “il più grande vino contadino del mondo”. Ma ve lo racconto, così si capisce meglio.
Il colore era granato molto intenso, quasi impenetrabile, ed essendo un Montepulciano d’Abruzzo con quattordici anni sulle spalle ci stava tutto. I profumi avevano alcuni caratteri tipici, come l’amarena, poi qualche accenno di combustione, come accade quando si fa la confettura in casa e si attacca leggermente sul fondo della pentola, determinando lievi note di bruciato.
Ma era assaggiandolo che si coglieva tutta la differenza di passo rispetto ai pur ottimi vini precedenti. I tannini erano vivi, evidenti, ma non aggressivi. La definizione giusta sarebbe stata quella di “autentici”, derivati dall’uva e pochissimo dal legno. Poi c’era una minima presenza di anidride carbonica, forse determinata da un’antica “coda” di malolattica in bottiglia, ma talmente fine e composta da essere appena percettibile. Un elemento che avrebbe potuto fare storcere il naso a qualche degustatore un po’ rigido sugli aspetti enologici, ma che aveva la stessa valenza della licenza poetica del Leopardi quando sbagliava volontariamente l’articolo nel Sabato del Villaggio.
Del resto, quando glielo si faceva notare, Edoardo Valentini rispondeva “Certo che c’è un po’ di anidride carbonica. I miei vini sono vivi, vuoi che non respirino?”
Sta di fatto che siamo rimasti tutti molto colpiti da quel vino, che si è dimostrato una volta di più un fuoriclasse assoluto. Lo ha ricordato Luciano Lombardi, alias Vignadelmar, nella sua bacheca Facebook, dove ha fatto la cronaca della degustazione. E quello che c’era e c’è da dire è che quel meraviglioso vino manifestava delle “licenze enologiche” che, senza togliere nulla al valore di scienza e di tecnica, sconfina nella poesia.