Il testamento di Bonilli e l’eredità di Cantarelli

Ricordando una delle ultime affermazioni di Stefano Bonilli, anche a distanza di tre anni si legge l'indicazione per la ristorazione italiana di una strada da percorrere.
“Oggi più che mai l’Italia più che un Paese di ristoranti è un Paese di trattorie. Oggi il cuoco giovane e preparato ha a disposizione questo spazio per far rivivere una tradizione gastronomica importante, alleggerita, intelligente, nuova, non necessariamente conservatrice. Non è più tempo di ristoranti costosi”.
Non mi ricordo chi fece quell’intervista e dove apparve, e me ne scuso con l’autore e con il sito, ma l’ho ritrovata, ed è probabilmente l’ultima affermazione pubblica che fece Stefano Bonilli prima di lasciarci. Eh sì, sembra ieri ma il prossimo mese saranno tre anni da quel triste 3 agosto del 2014 . Avendolo conosciuto bene, come pochi altri, riconosco perfettamente il suo modo di vedere le cose in quelle parole, che sono attuali e visionarie da far sorprendere solo chi non lo frequentava. E sono perfettamente condivisibili, per quanto mi riguarda.
“Non è più tempo di ristoranti costosi” , suona come una sentenza e apre uno spiraglio di verità sul fenomeno del distacco sempre più netto fra il “comune sentire” e l’alta ristorazione. Non sulla ricerca gastronomica, non sul ruolo moderno dei giovani cuochi, ed è spiegato tutto sinteticamente ma molto chiaramente. E sapendo bene anche da dove veniva Stefano Bonilli è evidente che stava ricordando in cuor suo anche l’eredità di chi lo iniziò al mondo enogastronomico, Peppino e Mirella Cantarelli.
A chi non sapesse chi sono stati, spero pochi, voglio solo ricordare che sdoganarono letteralmente la cucina regionale negli anni Sessanta , che nella loro trattoria/ristorante/spaccio di prodotti alimentari di eccezionale livello, fino al novembre del 1982, quando chiusero, quindi ben 35 anni fa, si davano appuntamento tutti gli appassionati di enogastronomia d’Italia e non solo. Persino la guida di Gault&Millau, in Italia dell’Espresso, sostenitrice della nouvelle cuisine dell’epoca, assegnò 17/20 a quel luogo straordinario, dove accanto alla cucina di Mirella, tra un savarin di riso e un tortellone, c’erano i culatelli selezionati e stagionati da Peppino e una lista dei vini che era semplicemente unica e che prevedeva Champagne di piccoli viticoltori e grandissimi, e allora sconosciuti da noi, vini di Borgogna e delle Langhe e formidabili distillati. In una trattoria di campagna di Sanboseto, vicino Parma, lontano da flussi turistici e anche da grandi metropoli.
A rileggere quelle parole dette da Stefano mi vengono in mente loro, poi Guido e Lidia Alciati, poi Gianni Cosetti del Roma di Tolmezzo, poi Franco Colombani del Sole di Maleo. E ancora, e loro per fortuna ci sono ancora, Antonio e Nadia Santini del Pescatore, che trattoria non è, ma che nella loro proposta esaltano, rinnovandola, una tradizione territoriale e non operano come molti loro colleghi soltanto una fuga in avanti esteticheggiante.
Quella indicata da Bonilli nella sua ultima intervista, insomma, non è solo un parere personale, ma è una strada da percorrere e che molti stanno iniziando a percorrere tra i “giovani cuochi preparati”. Dobbiamo soltanto dare loro più voce.