Il paradiso perduto
La paura del futuro gioca brutti scherzi e richiede a gran voce un improbabile quanto impraticabile ritorno a sistemi di agricoltura preindustriale, in una sterile contrapposizione fra tradizione e progresso scientifico.
Esattamente 350 anni fa John Milton scrisse Paradise Lost, il poema epico che lo ha fatto entrare di diritto tra i grandi della letteratura britannica. Narra della cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden, come molti di voi sanno. Mi viene in mente perché la tentazione di rifarsi a un passato felice e perduto, vivendo un presente complesso e un futuro minaccioso, è una delle costanti che osservo anche nel mondo attuale e nel nostro specifico in particolare. C’è, insomma, chi pensa che solo rifacendosi a un passato felice, ritornando a schemi ottocenteschi, come quello della contrapposizione fra natura e cultura, o se volete, fra tradizione e progresso scientifico , e optando decisamente per il primo corno del dilemma, si possano risolvere davvero i problemi. Sottovalutando il fatto che, bene o male, l’attività umana ha sempre cercato, attraverso studi e ricerche scientifiche, di trovare soluzioni efficaci alle tematiche che nel corso della storia si sono poste in continuazione.
Oggi, in epoca di meccanica quantistica, di teorie del multiverso e delle stringhe, dove ci si propone di colonizzare Marte nei prossimi cent’anni, c’è anche chi è terrorizzato da tutto questo e propone di rifugiarsi in un passato georgico, tornando a sistemi di agricoltura preindustriale, sostenendo che sia l’unico modo per salvare il nostro pianeta . È pur vero che è confortante e bello essere rassicurati da ciò che è noto e controllabile, ma il rischio è quello di idealizzarne molti aspetti, non tenendo presente che nel frattempo la vita media è aumentata moltissimo, che i nostri nonni hanno persino patito la fame e molte malattie oggi scomparse, che ormai acqua corrente, riscaldamento nelle case e molti elettrodomestici sono a disposizione della stragrande maggioranza delle persone. Lo stile di vita che solo cent’anni fa era possibile solo per piccole percentuali della popolazione, oggi è decisamente più diffuso, e questo nonostante crisi e difficoltà che sono sotto gli occhi di tutti, specialmente dei giovani.
Che c’entra col mondo del vino? C’entra, perchéun certo atteggiamento molto passatista, nostalgico e antiscientifico esiste anche lì. Molti sottovalutano la ricerca scientifica che viene fatta nei luoghi preposti, anche quando poi ottiene risultati ottimi nel settore della viticoltura sostenibile. Additano con sospetto i vitigni resistenti a peronospora, oidio e botrytis come fossero degli ogm occulti, vedono con grande diffidenza i portainnesti che non hanno bisogno di troppa acqua, per non parlare di alcune pratiche enologiche, come la vinificazione in riduzione teorizzata per decenni dal compianto professor Denis Dubourdieu e da molti altri eminenti studiosi. Attilio Scienza , uno dei massimi cattedratici della vite e del vino che abbiamo in Italia, parla apertamente di paura del futuro, cosa che fa anche Domenico De Masi , che è un sociologo, con il quale va sorprendentemente d’accordo.
La morale della favola per loro è che non è ragionevole il ritorno al passato, per quanto confortante possa risultare, ma che è solo con una ricerca opportunamente diretta che si possono davvero affrontare e risolvere i problemi . In viticoltura e in tanti altri settori. E forse un po’ di ragione ce l’hanno.