Il narcisismo enogastronomico

C’è chi - critico o appassionato - mette le proprie idee in primo piano, con la malcelata voglia di orientare i comportamenti degli altri per la sola presunzione di essere “qualcuno”.
Ho la fortuna e il privilegio di conoscere bene e di essere amico di Umberto Contarello, sceneggiatore di alcuni film molto importanti, fra i quali La Grande Bellezza con il quale ha persino preso un Oscar. Parlando con lui del ruolo della critica cinematografica e paragonandola a quella enogastronomica abbiamo trovato, com’era prevedibile, molte similitudini. “I migliori critici nel mio settore” mi ha detto “sono quelli che non sovrappongono il loro gusto personale al significato dell’opera. Sono quelli che sanno quali erano le condizioni per la realizzazione di quel particolare film, e che si rendono conto se il risultato finale corrispondeva o meno a quanto gli autori si erano ripromessi.” È il contrario di quanto fanno colore che invece vorrebbero insegnare a registi e ad autori come fare un film, applicando le proprie personali convinzioni in merito.
Nel mondo enogastronomico la cosa avviene esattamente nello stesso modo, e non coinvolge solo chi fa critica o giornalismo, ma anche una buona fetta di appassionati, che a volte si vorrebbero sostituire al produttore o allo chef di turno per correggerlo od orientarlo nella realizzazione del proprio lavoro. Non limitandosi ad analizzare se le intenzioni siano state bene o male realizzate, ma discutendole e mettendo le proprie idee in primo piano, in una sorta di narcisismo gastronomico o enologico che può risultare quasi sempre fuori luogo e in qualche caso più ridicolo che presuntuoso.
Del resto c’è chi si sente en privé leader politico o allenatore della nazionale di calcio, quindi perché non chef o viticoltore, anche se non sa come accendere un fornello e non ha mai lavorato in una vigna? Esprimere il proprio parere ad ogni costo, e al di là dell’effettiva competenza, è una voglia irrefrenabile per costoro, che si comportano più o meno come bimbi viziati e che non si rendono conto che dietro le apparenze esistono conoscenze tecniche, esperienze di lavoro e idee che nascono da tutto questo e non semplicemente da personali visioni del mondo, astratte e scisse dalla realtà che si deve affrontare. E passi se questi atteggiamenti un po’ ingenui sono frutto magari di una passione alle prime armi. Peccato veniale. Ma se arrivano da chi si professa un “professionista” della comunicazione, allora sono guai. Blogger, giornalisti, influencer, maitre à penser che siano, non cambia molto. Dietro c’è una malcelata voglia di orientare i comportamenti degli altri per la sola presunzione di essere chi si ritiene di essere, e non per un corretto spirito di servizio teso ad analizzare e a informare chi opera nei settori e chi legge le recensioni.