Il “buonismo” di DoctorWine

di Daniele Cernilli 17/12/18
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Il buonismo di DoctorWine

Valutando principalmente vini italiani, applichiamo al nostro giudizio la scala di punteggi che i critici internazionali adottano, soprattutto in riferimento ai vini francesi.

Alcuni lettori, leggendo i commenti e soprattutto i punteggi che diamo ai vini che giudichiamo, ci criticano per un eccesso di “buonismo”, una parola che sta lentamente prendendo connotazioni negative. Una considerazione di ordine generale: se una parola e un modo di fare che comprende il concetto di “buono” diventa criticabile credo che questo vada analizzato con attenzione e rappresenti un segno dei tempi piuttosto preoccupante. Del resto le ultime notizie che ci arrivano dalle ricerche del Censis sull’Italia, ma che non valgono solo per noi, credo, sono abbastanza illuminanti sul periodo storico che stiamo vivendo.

Ma torniamo a noi. Girando per molti Paesi, partecipando a commissioni di assaggio internazionali, leggendo la stampa internazionale, ma anche i social sul vino che esistono ovunque, assisto in continuazione all’assegnazione di punteggi elevatissimi per vini che qualche volta stento a capire. Questo accade perché i punti di vista, i gusti enologici, le convinzioni personali, possono essere molto diversi. Ci sono intere comunità di appassionati in determinate nazioni che non apprezzano ciò che per noi in Italia è invece tenuto in grande considerazione. E che invece privilegiano vini che per molti appassionati di casa nostra sono incomprensibili.

Penso a certi Cabernet della California, con evidenti residui zuccherini, a rossi corposi e morbidi che da noi verrebbero bollati come “marmellatosi”, a vini ottenuti rigorosamente con i soliti sei o sette vitigni “internazionali”. Di contro molti vini estremamente “territoriali” di casa nostra, persino qualche Barolo molto tradizionale, con i suoi tannini un po’ graffianti, per non parlare di alcuni Sagrantino di Montefalco, oppure certi rossi con acidità vibranti, come molti Barbera e molti Chianti Classico, sono considerati wines for food, cioè adatti solo ad essere bevuti in abbinamento col cibo e non da soli, come sarebbe opportuno per dei “grandi” vini.

Stili di assaggio, ovviamente, convinzioni e preferenze diverse, che sono in relazione anche con le modalità differenti con le quali si consuma il vino. Da noi prevalentemente con il cibo, tant’è vero che il terzo corso per sommelier è incentrato proprio sull’abbinamento. Fuori dai pasti in moltissimi Paesi di cultura anglosassone. I super esperti e super appassionati si ispirano nella massima parte dei casi a questo secondo comportamento, e da ciò ne discende che il massimo della vita, e della vite, è rappresentato da vini eleganti, equilibrati, agili, quasi sempre ispirati alla vitienologia francese, quando non francesi tout cour. A quelli, e solo a quelli, vanno assegnati i punteggi maggiori.

Ma noi che ci occupiamo in massima parte di vini italiani perché dovremmo semplicemente adeguarci a questa cultura dominante? Se siamo in Italia e valutiamo vini italiani, e nel mio caso da decenni, perché non dovremmo tenere in considerazione dei parametri leggermente diversi, come fanno negli Usa per i vini californiani o in Australia per i loro possenti rossi? Quando proviamo a farlo, assegnando punteggi elevati a vini molto italiani, molto territoriali, magari prodotti con vitigni tradizionali, allora scatta l’accusa di “buonismo”. Perché passi per un Barolo, un Brunello o un grande vino da vitigni internazionali, come il Sassicaia, ma se ad essere valutato con il “faccino” di DoctorWine c’è una Freisa, un Lambrusco, un Verdicchio, un Taurasi, un Cannonau, allora non va più bene. “Ma vuoi mettere questo Fiano con un Meursault”?

Ecco, io penso che invece un paragone, mutatis mutandis, ci possa stare. Per motivi di carattere organolettico, certo, ma anche per come quel viticoltore ha interpretato il suo territorio e la tipologia del vino che ha prodotto, e su questo da noi, in Italia, siamo fra i più bravi del mondo. Credo che si debba fare un salto logico, che cambiare prospettiva in relazione a situazioni diverse, climatiche, di terreni, di vitigni, sia opportuno e doveroso. E che non sia male, ogni tanto, anche un po’ di orgoglio, che non è “buonismo”, ma qualcosa di più serio.





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