1988: la vendemmia perfetta
Un’annata in cui l’andamento climatico è quello che vorrebbero tutti i produttori e i cui grandi vini sono scolpiti indelebilmente nella memoria.
In genere si dice “la tempesta perfetta” e non è una cosa positiva. Qui, invece, vorrei raccontarvi di quella che da più parti è stata “la vendemmia perfetta”. Quella dove tutto va bene, piove un po’ e quando deve, ma non troppo e neanche troppo poco. Dove luglio e agosto sono caldi ma non torridi. L’uva matura bene da Trieste in giù, e in tutte le regioni va tutto per il meglio. In qualche caso ci può essere stata una vendemmia migliore, ma una situazione generalizzata positiva come è accaduto nel 1988 è difficile da immaginare. Forse il 2016, ma staremo a vedere. Nell’88 però i grandi vini ci sono stati un po’ dappertutto.
Dal Sauvignon Lehenhof di Alois Lageder, al Trebbiano e al Montepulciano d’Abruzzo di Valentini, dal Collio Sauvignon che segnò l’esordio dei Venica nel mondo dei viticoltori importanti, a un’indimenticabile versione di Le Pergole Torte. Dal Sassicaia, che Tachis e un po’ anch’io molto sommessamente, ritenevamo superiore al mitico ’85, all’esordio del tris di annate auree dei produttori di Barolo e di Barbaresco, con un Barolo Cerequio di Chiarlo, balsamico e mentolato, che ricordo con grande rimpianto, avendo bevuto diverse magnum anche di recente.
Poi il mio amatissimo Vigna del Vassallo (allora si chiamava così e il nome lo inventai io con Paola Di Mauro) di Colle Picchioni, tra i pochissimi rossi del Lazio a poter sfidare il tempo con classe. Poi lo Chardonnay di Gravner, ancora in barrique, il Terre Alte di Livio e Maurizio Felluga, l’immenso Merlot di Stanko Radikon, e il Tocai, perché allora si chiamava così, di Mario Schiopetto.
Il Dorico di Sandro Moroder, nelle Marche, il Barolo Gran Bussia di Aldo Conterno, ovviamente il Monfortino, i Sori’ Tildin e San Lorenzo di Angelo Gaja, il Patriglione di Cosimo Taurino e il Duca Enrico della Corvo, e il Cabernet Sauvignon di Tasca d’Almerita, e gli Amarone di Masi e di Allegrini, forse il primo Monte Lodoletta, sempre Amarone, di un giovanissimo Romano Dal Forno e il Cabernet Fratta di Fausto Maculan e il Rubesco Vigna Monticchio, Torgiano Riserva, dei Lungarotti, e il Fontalloro, il Flaccianello, il Solaia, il Percarlo, il Vigorello, il Camartina, il Cepparello, il Montesodi, il Pareto, e i Brunello di Salvioni, di Siro Pacenti, di Lisin, di Cerbaionai e di Poggio Antico, e il Vigna di Pianrosso di Ciacci Piccolomini e il Poggio all’Oro di Villa Banfi, così si chiamava allora. E il Cerretalto di Giacomo Neri ai suoi esordi.
Poi il Chianti Classico di Riecine, con John Dunkley e Sean O’Callaghan, e una monumentale Riserva Ducale Oro di Ruffino. Tre vini del Castello di Ama, L’Apparita, poi i Chianti Classico Bertinga, che non fanno più, e La Casuccia, il Vino Nobile Vigna dell’Asinone Riserva di Poliziano e quella dei Poderi Boscarelli che ancora non si chiamava Il Nocio.
Tra i vini dolci il Recioro dei Capitelli (che si chiamava così) di Roberto Anselmi e il Passito della Rocca di Nino Pieropan.E tanti, tanti altri. Quelli erano vini, credetemi. E quella vendemmia fu un sogno.