Ronchi di Cialla. Il Re Fosco (1)
“Dal Piave agli Urali direzione Nord-Est, fino ai fiordi scandinavi direzione Nord si apre un mondo, un mondo di bevitori antichi, pervicaci, un emisfero liquido di alcol vari, immerso dentro una tradizione reale e scabrosa del bere, traghettata da anime di variabili e inquieti vissuti. Dentro questo emisfero vivono, bevono e muoiono molti bevitori”, rileva acutamente Roberto Terpin nel recente numero settembrino di ‘Pietre Colorate’ (ViaFavola editore).
Poche righe che fotografano con talento poetico il Friuli vinicolo migliore: quella fascia collinare che senza soluzione di continuità scende da Tarcento, limite settentrionale dei Colli Orientali, al Carso Triestino, passando per il celeberrimo Collio Goriziano e l’Isonzo.
Luoghi di umanissimi silenzi e di antichi pudori, definitivamente antimoderni. Un susseguirsi di basse colline e villaggi agricoli puntellati da osterie e vecchie cantine, col bancone in legno e piccoli calici di vetro pesante portati alla bocca col mignolo rialzato.
Ritrovi che svolgono la stessa – identica – funzione sociale che ricoprivano negli anni Cinquanta. E nei quali il vino non è un oggetto da studiare, ma un link in carne e ossa, una relazione tra soggetti.
E la vigna è in simbiosi sociale con la popolazione. Perché qui tutti, chi più chi meno, sono un po’ vignaioli.
La denominazione più settentrionale sono i Colli Orientali, fascia collinare che avvolge, disegnando una sorta di ‘C’ rovesciata, Cividale del Friuli, capoluogo vinicolo e culturale della zona, cittadina di antiche tradizioni longobarde. Appena più a sud c’è il Collio Goriziano. Il confine tra le due denominazioni è segnato dal fiume Iudrio “che fino al 1918 era anche quello che divideva il Regno d’Italia e l’Impero Austro-Ungarico. Le zone, però, sono molto simili, i terreni sono calcareo-argillosi, tutta l’area è prevalentemente collinare”, come scrive il nostro direttore Daniele Cernilli nella introduzione regionale alla nuova Guida Essenziale Mondadori.
Una differenziazione, dunque, quella fra Colli Orientali e Collio, apparentemente figlia di ragioni storiche, e non climatiche, geologiche o agronomiche. Un territorio, anzi due, uniti dall’insolito destino di non avere un prodotto identificativo. Soprattutto da quando l’amatissimo Tocai è stato costretto a cambiare nome.
All’interno dei Colli Orientali il territorio comunale di Prepotto costituisce il margine orientale, una sorta di lingua poggiata lungo il confine con la Slovenia.
Cialla non è solo il nome della azienda vinicola omonima, ma è anche la migliore sottozona di Prepotto. Una sottozona riservata in via esclusiva ai vitigni autoctoni, e posta quasi al termine di una valle chiusa e dominata dal bosco. Una vegetazione selvaggia, dentro la quale sono inseriti i 26 ettari di vigna di proprietà. Divenuta famosa per il recupero dal dimenticatoio dello schioppettino, vitigno a bacca nera che si traduce in rossi speziati e fragranti simili al Refosco dal Peduncolo Rosso, l’azienda della famiglia Repuzzi era il buen retiro di zona di Luigi Veronelli, che ne apprezzava sopra ogni cosa il Picolit.
Originario del Carso (il vitigno terrano è un refosco a tutti gli effetti), il termine ‘refosco’– dal friulano rap fosc, grappolo scuro - indica un gruppo di vitigni abbastanza omogenei, dei quali quello dal peduncolo rosso costituisce il vertice qualitativo. Resistente al marciume e alle piogge, ma difficile da portare a maturazione, il migliore refosco necessita di essere ‘frenato’ tramite la potatura verde. Il risultato è un prodotto di qualità, tannico, vinoso e poco alcolico.
“Un giorno Veronelli, che qui era di casa, ci portò André Tchelistcheff (il maggiore enologo americano del Novecento, n.d.r.), il quale cominciò a darci indicazioni su come fare il vino, dalla vigna alla cantina. Poi assaggiò i nostri vini e disse 'Lasciate perdere i consigli che vi ho dato e continuate a fare esattamente quello che state facendo'”, ci confessa orgogliosa Dina Rapuzzi, fondatrice dell'azienda assieme al marito Paolo, scomparso qualche tempo fa.
Oggi Dina è affiancata a tempo pieno dai figli Pierpaolo e Ivan, periti agrari. Ed entomologi: non è dunque difficile intuire la filosofia di vigna e la considerazione nella quale vengono tenuti insetticidi e pesticidi vari. “Qui la vite è attorniata dal bosco, che è in netta prevalenza e garantisce l’equilibrio dell’intero ecosistema - dicono -. L’utilizzo degli insetticidi andrebbe a minare questo equilibrio. E poi se cominci ad usarli non puoi più tornare indietro. Lo stesso discorso vale per i concimi.”.
DoctorWine: E in cantina?
Ronchi di Cialla: Seguiamo una pratica classica, non ingabbiata in etichettature concettuali. Il punto focale con il refosco è il corretto uso della diraspatrice, altrimenti ottieni un vino verde, anche portando in cantina l’uva migliore possibile. Per il resto, c’è poco da dire: la macerazione dura circa 20 giorni. Inizialmente pratichiamo il délestage, poi i rimontaggi all’aria. Dopo la svinatura il vino passa in acciaio per 48 ore, a seguire va in barrique (al 20% nuove), mantenendo la massa torbida. Dopo un anno imbottigliamo con una solfitazione minima. Le bottiglie restano in cantina per almeno 2 anni.
DW: come vanno le vendite?
RdC: da un po’ di tempo abbiamo stretto un accordo con Sagna (importatore italiano, tra l’altro, del Domaine de la Romanée-Conti, n.d.r.), interessato al profilo familiare di Ronchi di Cialla, per essere distribuiti in tutta Italia. Per quanto riguarda l’estero, il mercato migliore sono forse gli USA, in particolare New York. Ad ogni modo abbiamo in vendita tanti vecchi millesimi ben custoditi e perfettamente in vita anche in cantina. Una pratica che crediamo sia molto gradita agli appassionati. E nemmeno tanto usuale in Italia.