Radici e tradizioni (1)

Il primo vino di Taurasi etichettato ed esportato in Francia, data il 1878. L’Irpinia, la regione della Campania interna, montuosa, che corrisponde all’attuale provincia di Avellino, era stata da meno di vent’anni aggregata al Regno d’Italia, come tutto il resto del Regno delle Due Sicilie dopo l’impresa dei Mille di Garibaldi. Per raggiungere Atripalda, il centro vinicolo più importante, dai piccoli paesi di Montemarano e di Castelfranci, a non più di una ventina di chilometri di distanza, ci voleva anche un giorno con il carretto a cavalli. Di più se si doveva anche trasportare l’uva vendemmiata. Le strade erano mulattiere e il motore a scoppio non era ancora stato inventato.
Il pioniere e l’artefice di tutto ciò fu Angelo Mastroberardino (1848 – 1914) che lo produceva da diversi anni per il consumo locale, che arrivava con difficoltà fino a Napoli. Questo però significa che il Taurasi, grande vino rosso da uve aglianico, esisteva ben prima del Brunello di Montalcino ed era contemporaneo, come nascita, al Barolo. Circa trent’anni prima, nel 1855, Napoleone III, in occasione dell’Expo Universale di Parigi, aveva fatto redigere la famosa “Classification des Grand Crus” per i grandi vini di Bordeaux, e in particolare per quelli dell’Haut-Médoc. Ma un conto era produrre vini in zone pianeggianti o collinari, non distanti dal mare o da vie di comunicazioni anche allora abbastanza efficienti. Un conto era farlo in mezzo alle montagne d’Irpinia, dove le ultime uve venivano colte appena prima di Natale e portate giù tutte insieme, anche con quelle vendemmiate un mese prima, perché il viaggio per trasportarle si poteva fare una volta sola. “Quello che arrivava era un misto di uve fresche, appassite su pianta e mezze ammostate durante il tragitto” ricorda Piero Mastroberardino, la quarta generazione di vignaioli di famiglia. “I vini a quell’epoca, e fino agli anni Cinquanta, perché le difficoltà logistiche arrivarono fino a quel periodo, erano infatti più alcolici e più volatili, somigliavano agli attuali Amarone, per fare dei paragoni”.
Ad Angelo, il capostipite, successe poi il figlio Michele Mastroberardino (1886 – 1945), che agli inizi del XX secolo cominciò ad esportare i suoi vini in America Latina, Brasile, Uruguay ed Argentina in particolare, presso le comunità italiane degli emigranti, che stavano lentamente facendo fortuna. “Mio nonno mi dicono raccontasse, talvolta con stupore, episodi dei lunghi viaggi fatti in Sud America con la nave, e che duravano più di un mese. Trovava eccentrici alcuni passeggeri ricchi e i giochi di ponte che venivano organizzati” dice sempre Piero. “Lui era un uomo tutto d’un pezzo, aveva origini contadine e borghesi, immaginiamolo alle prese con i ricchi nobili della Belle Epoque...”. Michele dovette poi affrontare momenti durissimi. La Prima Guerra Mondiale, l’arrivo della filossera in Irpinia fra il 1920 ed il 1930, che distrusse tutti i vigneti. La Grande Depressione che partì nel 1929 e che da noi in Italia si sentì nei primi anni Trenta. Nel 1928 nacque Antonio Mastroberardino, padre di Piero e vero fondatore della cantina intesa in senso moderno. Prese le redini aziendali nel 1945, alla morte del padre, ad appena 17 anni. E fino al 2005 le ha tenute saldamente in mano, reimpostando tutta la produzione a partire dal 1952, reimpiantando i vigneti dopo la filossera e rilanciando nel mondo i vini della sua famiglia, che oggi rappresentano le radici e la tradizione dell’enologia campana e forse anche del Sud d’Italia. Antonio è mancato alcuni mesi fa, lasciando un vuoto immenso. Un padre della patria enologica italiana che ci ha lasciato, non solo un bravo viticoltore irpino. Piero, uomo colto, professore universitario, oggi resta da solo a capo dell’azienda, ma ha idee chiare e profonda conoscenza e ha ben presente il significato di tradizione e di radici, tanto che i suoi vini migliori si chiamano proprio Radici, un nome aggiunto quasi a commento di quello che la denominazione di origine ha voluto assegnare loro.