I 50 anni del Castello del Trebbio

Acquistato dalla famiglia Baj Macario nel 1968, oggi il castello è il cuore di un'azienda incentrata sulla produzione di vino e olio e sull'ospitalità, guidata da Anna Baj Macario e dal marito Stefano Casadei.
Era il tramonto quando sono arrivata al Castello del Trebbio, alle porte della Rufina. Un arrivo suggestivo. Il luogo è abbastanza isolato, ma sufficientemente vicino a Firenze per non sentirsi fuori dal mondo. Siamo a una decina di chilometri da Pontassieve, sulla via di Santa Brigida e il castelletto, costruito nel XII secolo "non era così importante da essere distrutto" (parola dei proprietari), sebbene proprio al suo interno vi venne ordita quella Congiura dei Pazzi che nel 1478 cercò di eliminare la famiglia Medici, allora al potere, acerrimi nemici della famiglia Pazzi proprietaria del Castello.
Senza entrare nel dettaglio del percorso storico, ci piace raccontare la sua storia attuale, che possiamo far partire dal 1968, quando il conte milanese Giovanni Baj Macario compra per la sua giovanissima moglie austriaca Eugenia Spiegel (40 anni di meno) una magione in Toscana, ed esattamente il Castello del Trebbio. Il regalo di un uomo innamorato per trascorrere momenti di relax nella bella campagna toscana.
Nonostante quelli fossero gli anni del cambiamento, della fine del regime di mezzadria, dello spopolamento delle campagne, al Trebbio il clima era diverso e questo, forse, ha fatto sì che fosse possibile iniziare una favola da castellani e vigneron con la produzione delle prime bottiglie di Chianti, una favola che si è trasformata in impresa gestita oggi dalla figlia Anna con il marito Stefano Casadei, da qualche anno aiutati anche dai loro figli: la prima gestisce il progetto "anfora", l'altra si cimenta con l'ospitalità, mentre il terzo figlio scalda i motori enologici in California.
Il Castello del Trebbio è inserito nel gruppo DCasadei, che comprende anche una proprietà in Sardegna, nel Sarcidano, e l'altra in Maremma. La caratteristica del gruppo è l'applicazione di un nuovo protocollo etico, da loro definito "Biointegrale" (che è un marchio registrato): biodinamica in campagna (oltre a vino e olio al Trebbio si producono anche zafferano e farro), sostenibilità in ambito architettonico ed energetico, spazio agli animali (dai cavalli per lavorare la terra alle oche, dalle pecore alle vacche, dalle api ai lombrichi) e alla biodiversità. In poche parole: totale rispetto della natura.
Abbiamo avuto l'occasione di ripercorrere con Stefano la storia del Chianti Riserva aziendale, il vino di punta intorno al quale ha sempre ruotato la produzione, dall'annata 1971 (allora l'etichetta era Chianti Riserva Doc Trebbio) fino ad arrivare all'attuale Chianti Rufina Riserva Docg Lastricato, vendemmia 2013. Negli anni è cambiata la denominazione e lo stile produttivo, pur mantenendo spiccate caratteristiche chiantigiane tipiche della Rufina.
Nel 1971 al Trebbio era ancora in vigore la mezzadria e quindi il vino è stato fatto dai contadini, che si sono trovati a combattere con un'annata più calda e asciutta del solito. L'uvaggio era il classico dell'epoca: sangiovese con canaiolo, ciliegiolo, colorino e trebbiano e il vino si presenta aranciato, con note di cuoio, terra bagnata e camino spento, ma sta in piedi grazie a un'acidità spiccatissima, i tannini impercettibili. Una chiara fotografia di come eravamo.
Il 1979 vede il 50% dei vigneti ormai rinnovati, mentre la mezzadria è ormai agli sgoccioli. L'annata è fredda e piovosa. Il vino è granato scarico, abbastanza rustico al naso con note verdi e di cenere. La bocca è verticale, quasi graffiante per acidità, ma saporita e persistente.
La Riserva 1983 viene etichettata come Chianti Colli Fiorentini, dizione che perderà nel 1991, con l'iscrizione a Chianti Rufina, sebbene la prima annata del Lastricato Chianti Rufina Riserva sia la 1997. Con l'83 anche la famiglia Tamburini, gli ultimi mezzadri rimasti, se ne va ma intanto è conclusa la realizzazione di 40 ettari di vigneto, con una percentuale minima di uva bianca. L'annata è caldissima e poco piovosa, cosa ben evidente all'olfatto, dove il caldo marca con note di confettura di prugna, fiori scuri, cuoio e la bocca offre più volume ma sempre alta acidità, con un buon allungo e un finale di marasca ma leggermente amarognolo.
Il 1989 per la famiglia è un anno duro: muore il conte (a distanza di un anno lo seguirà la moglie) e anche dal punto di vista climatico le cose non sono facili. Queste difficoltà si rispecchiano nel vino, che è scontroso e contratto e anche in bocca rimane scorbutico.
Con il 1995 si è conclusa la divisione dell'eredità, Anna e il marito Stefano riescono a liquidare tre fratelli (con loro resta Alberto) e iniziano le prime prove da soli. L'annata è buona e il vino li ripaga. Granato scuro e brillante, è integro al naso, con ricordi di ciliegia, curcuma, sottobosco, appena un po' di legno vecchio. La bocca è bella, molto fresca, di buon peso e dal tannino grintoso tipico della Rufina. Buono l'allungo e il finale fruttato.