L’importanza dell’olfatto

di Riccardo Viscardi 17/06/19
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profumo del vino foto Consorzio Roero

Mentre la ricerca enologica si è concentrata sugli aspetti olfattivi del vino, per mantenerne il più a lungo possibile le note fruttate giovanili, parte della critica bolla come “taroccati” questi vini.

Pochi giorni fa ho ricevuto una telefonata da un amico, noto critico enoico di un’altra testata, che dopo qualche convenevole mi dice: «Avevi ragione nel dire che la produzione “è più avanti della critica”». Una frase che, detta qualche anno fa, fu ritenuta una semplice provocazione. Quando gli ho chiesto come mai avesse cambiato idea, mi ha spiegato che, grazie a un nuovo progetto che lo vede in veste di vinificatore, segue molto più da vicino gli aspetti produttivi. Si è reso conto, parlando con il suo enologo, di quanti passi in avanti siano stati fatti negli ultimo 20 anni nella comprensione dei fenomeni che guidano il chimismo del vino. Di come, da queste conoscenze, si siano sviluppate delle tecnologie per rendere queste scoperte operative. Il fine della ricerca è migliorare il vino, la comprensione delle caratteristiche del vitigno e quindi la territorialità, che nasce dal connubio tra vitigno, vino e territorio.

La maggior parte dei recenti studi ha riguardato l’aspetto olfattivo del vino. La ricerca delle molecole che ne compongono il profilo e che rendono riconoscibile un vitigno da un altro. Inoltre questi studi hanno scardinato alcuni retaggi della cosiddetta “tradizione” che si sono rivelati non solo obsoleti ma anche deprimenti delle caratteristiche del vino e dello stesso vitigno. Certo, tanti vini ottimi sono nati da conoscenze limitate sull’aspetto olfattivo dei nostri vitigni, e questo ci dà la sicurezza che la crescita del vino italiano sarà sempre più inarrestabile ora che abbiamo mezzi più performanti per esaltare vitigni e territori particolarmente vocati.

Di queste potenzialità si sono accorti gli operatori (buyer e stampa) esteri che continuano ad incrementare gli acquisti e gli articoli sul nostro paese. Chi invece non si è accorto della new age del vino italiano sembra essere parte della nostra critica, troppo impegnata nella ricerca di qualche “like” in più e poco interessata a interpretare i cambiamenti produttivi. Noi di DoctorWine analoghe battaglie le abbiamo combattute tanti anni fa, sebbene con un’altra casacca. Tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi dei ‘90, l’obiettivo era avere tannini meno amari e astringenti, una complessità gustativa maggiore e una migliore armonia; gli olfatti li volevamo scevri da contaminazioni estranee al vino spesso derivanti da contenitori obsoleti, e un’ossidazione meno evidente. Ci scontrammo con la stessa mentalità da “culto delle ceneri” che incontriamo ora tra alcuni produttori, mentre la poca critica enologica presente era più allineata su questi concetti. Adesso l’esigenza di cambiamento è sentita da molti produttori e la critica frena, ancorata su posizioni non scientifiche e autoreferenziali; che tristezza.

Un aspetto mi sembra importante soprattutto sui vini da lungo invecchiamento, dove l’aspetto olfattivo leggermente evolutivo veniva e viene ancora percepito come una caratterizzazione positiva e obbligatoria della maturazione in legno. Ma  alcuni produttori hanno iniziato a chiedersi se è possibile prolungare nel tempo la freschezza olfattiva dei vini e perché quel decadimento olfattivo rende dopo anni vini diversi molto simili almeno all’olfatto. La risposta della scienza è stata che le molecole odorose presenti in quei vini dopo l’invecchiamento erano praticamente le stesse, indipendentemente dal vitigno e dalla provenienza del vino, segno che erano la naturale evoluzione di sostanze ossidative e non frutto di sostanze più complesse nate dalle reazioni di alcol con acidi e aldeidi, che purtroppo rimangono sotto la soglia olfattiva per noi umani. Quindi era inutile cercare ossidazioni premature perché facevano solo perdere identità di vitigno e di territorio.

Per superare questo problema gli interventi da fare sono molteplici, costosi e molto impegnativi, quindi sono difficili anche una volta compresi i meccanismi. Ne risulta che mentre la produzione e i produttori si fanno in 4 per superare il problema (e il mercato premia questi vini), molta critica e molti comunicatori negano non solo le evidenze scientifiche ma anche gli sforzi compiuti da questi produttori consapevoli e visionari all’inseguimento dell’olfatto che leghi maggiormente il loro territorio ai loro vini tramite i vitigni autoctoni.

Lo fanno, i colleghi, per superficialità, per non conoscenza, per non dover resettare i loro parametri di giudizio? Francamente non lo so ma questo problema mi preoccupa molto.

PS. Un paio di anni fa  è uscito un bellissimo libro divulgativo sulle nuove scoperte sui profumi del vino scritto dal professor Luigi Moio (Il respiro del vino) che ha la capacità di rendere gli argomenti trattati di facile comprensione per tutti, anche se personalmente ho trovato illuminante la lettura di alcuni lavori citati nella esaustiva bibliografia. Probabilmente questo libro - nonostante il grande successo - non lo hanno letto in molti tra i colleghi: peccato.





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