Le roi Gaja

di Daniele Cernilli 11/07/13
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Le roi Gaja

“La migliore annata? E’ sempre l’ultima, quella che si deve vendere”. Sembra una battuta un po’ cinica, invece fa parte del bagaglio di solide concretezze normalmente espresse da Angelo Gaja, la star dei produttori di vino italiano. L’unico che viene sempre chiamato a far parte del ristrettissimo giro dei “divi divini”. Piemontese di Barbaresco, figlio di Giovanni Gaja che di quel paese fu sindaco liberale, Angelo fa parte di una categoria particolarissima, quella della borghesia contadina, che sembra una contraddizione in termini e invece è molto presente in alcune zone vinicole italiane. Solo contadino o viticoltore proprio no. Saprebbe anche farlo, ma non è nelle sue corde. Innovatore, promoter, commerciale in senso nobile ed alto del termine, carismatico, di certo sono definizioni che gli calzano a pennello. Prese le redini della sua azienda all’inizio degli anni Settanta. Per un po’ insieme a suo padre, poi da solo, a poco più di trent’anni. Dopo qualche anno, anche in virtù della conoscenza dei vini francesi che si stava facendo, iniziò a sperimentare le barrique per produrre il suo Barberesco e i suoi “cru” Sorì San Lorenzo e Sorì Tildin. Le faceva vaporizzare prima “così i tannini più legnosi se ne vanno e non marcano i vini, il nebbiolo i tannini li ha già di suo e non bisogna sostituirli con quelli del legno, altrimenti facciamo i vini del falegname”. Aveva capito tutto.
Poi cominciò a girare per il mondo, lasciando sua moglie Lucia a reggere l’organizzazione aziendale, cosa che ha saputo fare meglio di qualunque direttore generale, e il fido Guido Rivella ad occuparsi tecnicamente dei vini e delle vigne. Conobbe i grandi produttori francesi, Madame Lalou Bize Leroy, che allora era a capo del Domaine de la Romanée Conti, dove si producevano i più famosi vini di Borgogna, che lui cominciò ad importare in Italia. Poi Eric de Rothschild, il mitico Barone di Chateau Lafite, il più classico dei Pauillac. Infine Robert Mondavi, padre della vitienologia californiana, che proprio in quegli anni si stava affermando come la nuova frontiera dei grandi vini a livello mondiale. Da tutti ha imparato qualcosa, perchéè vero che Angelo parla con la velocità di una mitragliatrice, ma è uno che sa anche ascoltare. La prima volta che lo andai a trovare mi disse: “Resta qui per qualche giorno, ti do la R4 che uso per andare in campagna e tu girati tutti i produttori che 

 

vuoi. Ce ne sono tanti che stanno cominciando a imbottigliare sia a Barbaresco sia a Barolo, e sono il futuro di questa zona. Vai a trovarli e scrivi di loro. Anche di me, se vuoi, ma è loro che hanno bisogno di essere conosciuti”. Era il 1983, io avevo appena conosciuto gli allora ragazzi di Arcigola, quelli che di lì a poco dettero vita a Slow Food, e conoscevo pochissimo i nuovi produttori di Langa. Così, con i suggerimenti di Carlo Petrini e di Gigi Piumatti, andai a trovare Renaro Cigliuti, Elio Altare, Luciano Sandrone, e conobbi anche un giovanissimo, allora ventisettenne, produttore di Moscato a Castagnole Lanze, Giorgio Rivetti. Certo, dovetti imparare alla svelta come si usava quel dannato cambio della R4, maledicendo l’industria dell’auto francese in tutti i modi possibili, ma la cosa mi fu molto utile. L’ultimo giorno Angelo mi fece vedere la sua cantina, i suoi vigneti, e mi riaccompagnò in auto ad Asti, a prendere il treno per Roma. Con mio enorme stupore ad un certo punto tirò fuori un registratore a cassette, di quelli che si usavano allora, e mi intervistò chiedendomi cosa pensassi di quello che avevo visto e registrando tutto. Alla fine l’ultima domanda. “Vorrei comprare qualcosa in Toscana, a Montalcino. Mi sapresti consigliare, tu che li conosci bene, dei Brunello da assaggiare per farmi un’idea, ma non Biondi Santi o Col d’Orcia, di quelli so anche troppo. Qualche emergente...” Io gli parlai di Case Basse, avevo assaggiato da poco il ’79 e ne ero entusiasta. Poi di Roberto Bellini a La Chiesa di Santa Restituta. Infine di Lisini, che aveva fatto dei vini magnifici a partire dalla vendemmia 1975. Ci volle qualche anno, poi comprò proprio la Chiesa di Santa Restituta, che ribattezzò Pieve di Santa Restituta, e credo che quella chiacchierata in auto abbia avuto qualche effetto. Di certo lo ebbe su di me, che fui sbalordito da un’efficienza quasi “americana”.

Nel frattempo aveva, forse non casualmente, iniziato ad importare i vini dei più importanti produttori californiani, Mondavi, Far Niente, Jordan, Kendall Jackson, Silverado, Opus One. Quasi contemporaneamente arrivarono i bicchieri di Riedel e nacque la Gaja Distribuzione che affiancò l’attività vitivinicola. Ma arrivarono anche i primi riconoscimenti internazionali. Da Robert Parker, da Wine Spectator, da pressoché tutta la stampa internazionale, oltre che italiana. Lui si faceva corteggiare, come una bella donna, ma non si è sposato mai con nessuno, attento agli equilibri, ma anche alla sua indipendenza. Una volta parlando proprio di Veronelli e delle sue battaglie disse che su alcune poteva anche essere d’accordo, ma che voleva restare padrone a casa sua e non farsi condizionare più di tanto. Intanto i suoi vini diventavano sempre di più. Acquistò la cantina Marengo Marenda, poi Gromis, a Barolo, poi venne il momento di Bolgheri, con Ca’ Marcanda, che dotò di una struttura modernissima, che comprendeva anche opere d’arte accanto a botti e a barrique. “Però l’arte moderna la capiscono in pochi. Pensa che quell’opera in ferro battuto che ho fatto fare per l’ingresso uno l’ha definita un incidente ferroviario...” mi confessò un po’ deluso una volta.

 

Oggi dice di essersi ritirato (ma non ci crede nessuno). Lucia resta sempre al suo posto, e lo guarda con dolcezza immutata. Le figlie Gaia e Rosanna sono divenute delle professioniste del vino di rara bravura, e curano il settore commerciale e le public relations, anche con la stampa, in modo impeccabile. Lui continua a girare il mondo, fa conferenze, a pagamento, ma per beneficenza, nelle quali racconta la storia recente del vino italiano. In un inglese corretto, con una pronuncia italiana, o meglio, “langhetta”, parlando a raffica, ricordando persone ed avvenimenti. Facendo in modo brillantissimo ciò che tanti, pagatissimi funzionari pubblici compresi, non sarebbero lontanamente in grado di fare. Raccontando l’esperienza di una vita che lo ha portato ad essere chiamato da molti produttori francesi “le roi Gaja”, e detto da loro, che non sono mai così teneri con gli italiani, sembra, e forse è, dannatamente vero.





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