Gino ed io

di Daniele Cernilli 05/08/13
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Gino ed io

Ci sono date che rimangono scolpite nella memoria, quelle che ti cambiano la vita. Per me una è sicuramente lunedì 26 marzo del 1979, il giorno che incontrai per la prima volta Gino Veronelli. Me lo ricordo come se fosse oggi. Lo vidi uscire da uno degli ascensori nella hall dell’allora hotel Cavalieri Hilton di Roma, dove mi aveva dato appuntamento. Lo ricordo sorridente e con il braccio teso, pronto a stringermi la mano. Lui aveva cinquantatré anni, io appena ventiquattro. Qualche mese prima gli avevo mandato una lettera, lui dirigeva il mensile Vini & liquori che io leggevo sempre, da giovane appassionato alle prime armi. Mi piaceva la sua teoria dei “cru”, quella per la quale anche i vini italiani dovevano essere catalogati a partire dalla vigna o dalle vigne di origine, proprio come i grandi francesi e mi affascinava il suo continua alludere ad una “civiltà contadina”, forse un po’ idealizzata, che lo portò ad affermare di se stesso “io sono un contadino con la penna” ed a vestire in modo singolare, usando in inverno un grande pastrano nero, con tanto di cappuccio per proteggersi dalla pioggia. Mi piaceva anche il suo modo immaginifico di scrivere, recuperando terminologie desuete e addirittura inventando termini e modi di dire. “Vino da meditazione” lo ha coniato lui, ad esempio. Mi piaceva il fatto che proveniva da studi filosofici, quelli che stavo faticosamente terminando anch’io, essendomi imbarcato in una tesi piuttosto complessa sul neoidealismo italiano che stentavo a finire, complici anche gli anni di piombo e la militanza politica nel partito radicale, con quotidiane raccolte di firme sui banchetti di Largo di Torre Argentina, qualche volta a fianco di una giovanissima e affascinante Emma Bonino. Gino, che era uomo aperto e molto intelligente, quasi mi adottò, dandomi consigli da vero amico.

 

Gian Arturo Rota, suo genero, che ha di recente curato un libro a lui dedicato, mi ha ridato le copie delle lettere che ci siamo scambiati in quegli anni e che lui aveva trovato in archivio. Le mie erano le considerazioni di un giovane che affrontava le prime difficoltà della vita, con tutti i dubbi del caso. Le sue risposte erano sorprendentemente paterne, per un uomo che si dichiarava anarchico e libertino, e se oggi il mio lavoro è scrivere di vino questo lo devo in grandissima parte proprio a Gino e ai suoi incoraggiamenti di quegli anni. Dopo alcuni mesi di carteggi vari, dovendo venire a Roma per uno dei suoi innumerevoli impegni, volle conoscermi di persona, e siamo tornati a quel lunedì di marzo di tanti anni fa. Iniziai a scrivere su Vini & liquori, all’inizio in modo disastroso, tanto che l’allora capo redattore Alberto Zaccone, oggi carissimo amico, oltre che grande assaggiatore, mi sgridò duramente e mi fece rifare il primo articolo due o tre volte prima di pubblicarlo. La successiva permanenza di Gino a Vini & liquori durò poco, però. Di lì a qualche mese litigò con l’editore e prese a fare altro. Programmi televisivi, l’enciclopedia Il Veronelli che uscì a dispense edita da Rcs, il Catalogo dei Vini d’Italia, prima con Bolaffi, poi con Giorgio Mondadori. Infine la guida dei Ristoranti d’Italia con la neonata Veronelli Editore alla quale collaborai per un paio d’anni insieme a Stefano Milioni, brillante enogastronomo e promoter. Tutto fino a quando, proprio su Vini & liquori e proprio Alberto Zaccone non intitolò una mia intervista ad Ezio Rivella, che stava realizzando la Banfi a Montalcino, “il peggior vino la fa il contadino”, parafrasando, capovolgendola, una delle classiche affermazioni veronelliane. Apriti cielo. Mi arrivò una telefonata durissima, ed io, che replicavo che avevo visto il titolo solo a cose fatte, mi sentii dire che non avrei dovuto accettare una cosa del genere e che dovevo chiedere il sequestro della rivista. Non ebbi il coraggio di seguire il perentorio consiglio e i rapporti si raffreddarono per alcuni anni.

Ci rimise insieme una sera Giannola Nonino. Eravamo in un ristorante di Monteporzio Catone, il D’Artagnan, sui Castelli Romani, dove un giovanissimo e creativo chef, Sandro Fioriti, che poi avrebbe avuto un successo enorme a New York, muoveva i suoi primi passi. Arrivai quasi appiattendomi sul muro della sala, che era lunga e stretta, ma quando Gino mi vide sorrise e mi strinse di nuovo la mano. La bufera era passata, ma con lei anche tre o quattro anni. Io cominciavo a collaborare con diverse rivista, facevo molte lezioni per l’Associazione Italiana Sommelier ed insegnavo in una scuola media di Ariccia. Non ero più lo studente senza arte né parte, e forse anche lui stava prendendo una china discendente, dopo anni di fama e di successi che lo avevano portato ad essere popolarissimo. Non mi consideravo il suo erede, non mi sono mai considerato tale, Gino è stato un uomo di cultura e di talento ben superiori ai miei, però iniziavo a far parte del mondo del vino in modo più sostanziale e soprattutto in un momento che non era più pionieristico. Eravamo nel 1985, erano nate molte aziende e stavano nascendo nuove riviste e nuove rubriche sul vino anche sulla stampa generalista. Antonio Piccinardi e Gianni Sassi avevano creato La Gola, una rivista bellissima, c’era Il Vino di Isi Benini, Civiltà del Bere di Pino Khail, iniziavano programmi enogastronomici in tv, come “Che fai, mangi?” con Carla Urban o “Linea Verde” di Fazzuoli. Il Gambero Rosso nacque l’anno successivo e la guidaVini d’Italia nel 1987. Il Bolaffi non usciva più da qualche anno e c’era bisogno di una pubblicazione-catalogo che informasse i lettori sullo stato del vino. “Bella” mi disse, “ma non c’è neanche una cantina della quale io non abbia già parlato”. Era vero, lo sapevo bene, e forse non era il caso che me lo sottolineasse, pensai.

 Lui era andato in giro per anni a censire aziende e ad assaggiare vini. Non si poteva che partire dal suo lavoro per iniziare, nessuno l’aveva fatto meglio. Ma quello che per me, per noi, visto che c’erano anche Carlo Petrini, Gigi Piumatti e Stefano Bonilli, rappresentava un titolo di merito ascrivibile a Gino, per lui era una rimasticatura ed una scopiazzatura che un po’ lo infastidiva. Il carico ce lo 

 


mise poi Bonilli scrivendo sul Gambero Rosso che l’atteggiamento di Veronelli che ripeteva di continuo che lui le cose le aveva scritte prima degli altri somigliava a quello di un “pugile suonato”. Non proprio il massimo del rispetto, lo ammetto. So che Gino ne rise con i suoi collaboratori e la cosa non ebbe altro effetto che raffreddare di nuovo i rapporti fra me e lui. In effetti, però, gli esordi di Gambero e di Slow Food (o Arcigola, come si chiamava inizialmente) sono stati una filiazione molto diretta dell’opera di Veronelli, che ne è stato, volente o nolente, il principale ispiratore, proprio come lo fu, secondo me, de La Gola di Piccinardi. Non si trattava di prendere il suo testimone, Veronelli aveva appena sessant’anni ed ha lavorato e scritto per altri quindici anni almeno, prima che la completa cecità lo costringesse a rarefare la sua attività dal 2000 in poi. Si trattava invece di riconoscergli un ruolo di guida, anche intellettuale, che per quanto mi riguarda non ha mai perso, neanche ora, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa. Tanto è vero che nei suoi ultimi anni di vita Petrini e Slow Food si sono molto riavvicinati a lui, considerandolo un padre nobile, e lo stesso, a livello personale, ho fatto anch’io. Del resto come sarebbe stato possibile fare altrimenti con un uomo del suo valore.

Uno che ha letteralmente sdoganato la cultura materiale del vino e del cibo, facendole recuperare il ruolo che le sarebbe sempre spettato e che, ad esempio, in Francia possiede da sempre e ben più chiaramente che da noi. Uno che ha nobilitato l’opera di Luigi Carnacina, che ha contribuito in modo decisivo a realizzare il Premio Nonino, allora Risit d’Aur, coinvolgendo in giuria gente come Mario Soldati, Gianni Brera ed Ermanno Olmi. Uno che ha inventato il linguaggio televisivo dell’enogastronomia, con “A tavola alle Sette” prima con Delia Scala, Umberto Orsini, poi con Ave Ninchi, ottenendo successi di ascolto semplicemente incredibili all’epoca. Ma soprattutto un grande scrittore, dalla sterminata bibliografia, un grande intellettuale prestato al mondo del vino, che ha ancora oggi tanti allievi e tanti produttori di vino, di olio e di distillati che gli devono moltissimo, alcuni dei quali, però, neanche si ricordano più di quel che ha fatto per loro. Con queste righe, forse parlando troppo anche di me, ho voluto ricordarlo a tutti. Anche a chi fa finta di esserselo dimenticato e per non rischiare di far mai parte di quel club.





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