La fine del vino comune

di Daniele Cernilli 19/05/14
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La fine del vino comune

Lo so che voi che mi leggete siete tutti degli appassionati e che un tema come quello che sto per trattare potrebbe inizialmente non sembrarvi importante. Eppure è un segnale molto preciso e, aggiungerei, ineluttabile di cosa sta per accadere nel mondo del vino italiano. Mi è arrivato un dato molto preoccupante: in Sicilia il prezzo dello sfuso “comune”, del vino “commodity” senza alcuna denominazione, è di meno di venti centesimi al litro. Cinque litri per un euro, insomma. Una cifra ampiamente sotto il costo di produzione e che determinerà fra breve pesanti proteste, come ce ne sono state alcuni anni fa, e sul medio periodo l’abbandono di migliaia di ettari di vigna e non solo in Sicilia. Basti pensare che circa la metà della produzione nazionale è ancora costituita da vini di quel genere.

Per ora il sistema si regge sul reddito “dominicale”, sostanzialmente detassato, appannaggio di persone che fanno un altro mestiere e che producono un po’ d’uva e un po’ di vino, talvolta per autoconsumo. Ma che almeno la metà del vino “comune”, per essere ottimisti, sia a rischio è fuori discussione. In Piemonte, zona astigiana, dicono che per ogni vecchio viticoltore che muore si perde un ettaro di barbera. Perché accade questo? Perché il vino “comune” costa meno in altri Paesi, in Argentina, in particolare, dove i costi del lavoro e dei terreni sono minori e si possono produrre, per quella fascia di consumo, vini migliori e a prezzi più bassi.

Cosa comporterà? Per prima cosa il fatto che anche nel settore enologico in Italia saremo costretti a produrre qualità e vini con un margine operativo più altro, proprio in funzione di quello. Ovviamente ci dovremo riuscire, la cosa non è scontata, e passa anche attraverso l’immagine e il prestigio internazionale che i nostri prodotti potranno conquistare, con i mezzi promozionali adeguati e la qualità indiscutibile. Poi dovremo abituarci ancora di più a considerare il vino come qualcosa di molto diverso da un alimento quotidiano. Si berrà ancora meno, il vino italiano costerà ancora di più, e forse nasceranno prodotti in brik che conterranno vini argentini, spagnoli o rumeni, magari con nome italiano, che costeranno poco e varranno poco.

La perdita di vigneto cambierà i paesaggi e toccherà anche quelle zone dove produrre è costoso ma contemporaneamente i vini non sono riusciti a conquistare lo “status” di primo livello, con prezzi adeguati ai costi di produzione. Sta accadendo per gli uliveti, potrebbe accadere anche per i vigneti. Una situazione preoccupante, della quale si parla poco, assordati come siamo da pomposi e retorici richiami alle pretese “eccellenze” vinicole e ai dati, in parte positivi, ma fragili dei nostri successi nell’export. Quest’anno arriveremo a 20 milioni di ettolitri esportati con 5 miliardi di fatturato. Vuol dire, per chi sa leggere i numeri, quattro euro per litro, tre per bottiglia da 0,750. I Francesi esportano meno, ma al doppio del prezzo, persino i vini australiani costano di più. Ma questo non viene detto mai.





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