Facciamo due conti

di Daniele Cernilli 23/03/12
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Facciamo due conti

Un lettore di Doctor Wine che si firma Daniele mi ha chiesto di fare un po’ di chiarezza sui conti del comparto vitivinicolo, visto che se ne sentono di tutti i colori. C’è chi intona peana perché l’export cresce, c’è chi dice che il mercato italiano è alla canna del gas, c’è chi scrive su riviste che il ricarico dei vini nei ristoranti è eccessivo, e che questo sarebbe alla base della contrazione dei consumi. Ci sono cose vere e cose meno vere in tutte queste affermazioni, come succede quando si prova ad analizzare fenomeni complessi tagliando gli argomenti con l’accetta o cercando dei presunti colpevoli in modo ideologico e preconcetto. Proviamo allora a fare due conti, non precisissimi, un po’ ad occhio e croce, ma indicativi. Cominciamo col dire che sì, l’export nel 2011 è aumentato del 9% in volume e del 12% in valore, che vuol dire che è lievemente aumentato il prezzo medio per litro. Tutto il volume del vino esportato ha raggiunto i 4,4 miliardi di euro, che è la maggiore voce singola dell’agroalimentare, cioè del made in Italy enogastronomico, il cui totale arriva intorno ai 30 miliardi di euro. Però circa l’80% dell’export vinicolo si dirige verso tre nazioni, gli Usa, la Germania e la Gran Bretagna. Cina, Russia, Giappone, Brasile aumentano, ma rappresentano ancora oggi più che altro delle speranze visto che insieme non arrivano al 10% del totale. Altri Paesi, Francia, Cile ed Australia in particolare, stanno puntando molto più di noi sull’export verso quelle nazioni e ci lasciano ampiamente indietro. E questo è un bel problema in prospettiva. I circa 4 miliardi e mezzo di export, inoltre, rappresentano circa un terzo del fatturato del comparto, che è intorno ai 14 miliardi di euro. Il che significa che quasi 10 miliardi di euro sono rappresentati dal consumo interno e di questi più della metà, circa 6 miliardi, sono commercializzati dalla grande distribuzione, sono insomma venduti nelle catene di supermercati, ipermercati ed hard discount. Il resto vede una piccola parte di vendita diretta, e poi un 25% almeno che è venduto nella cosiddetta Horeca, il settore tradizionale, quello degli hotel, dei ristoranti e dei catering. Quest’ultimo, anche se con significative differenze, è decisamente in crisi. E subiscono dei contraccolpi, attraverso minori vendite e tempi di pagamento molto più lunghi che in passato, quelle cantine, in genere medio-piccole, che hanno sempre puntato essenzialmente su quel settore. Per essere più chiari, oggi chi fa fatica ad esportare a causa di prezzi di vendita troppo elevati (dovuti anche a costi di produzione elevati, ovviamente e non solo a difficoltà organizzative), chi non riesce ad affrontare il comparto della Gdo e chi si rivolge solo o prevalentemente al settore dell’Horeca fa una fatica maledetta a stare sul mercato. Se a questo si aggiunge una crisi del credito pesante e l’aumento dell’Iva del 15%, da 20 a 23 punti percentuali, il quadro è completo. A tutto questo si aggiungerà lo spauracchio dell’Imu sui fabbricati agricoli. Non sulla cantine, ma sugli agriturismi probabilmente sì e sulle strutture nelle quali si fa vendita diretta probabilmente sì. Un paesaggio a tinte fosche? Certo, non c’è da fare salti di gioia. Però, come diceva John Belushi in Animal House, quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Il che vuol dire, fuor di metafora, che ci vorrà un’iniezione di professionismo, che fare vino e venderlo sarà forse meno romantico ma comporterà maggiore efficienza, maggiore conoscenza dei mercati e migliore utilizzo di fondi promozionali europei come gli ocm. E una maggiore conoscenza dei problemi del comparto da parte dei nostri governanti, che non possono andare in giro solo riempiendosi la bocca delle pretese eccellenze del made in Italy agroalimentare senza conoscere un bel niente di come vanno concretamente le cose e di che cosa realmente serve per promuoverne l’export.





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