Un sussurro bianco dal cuore dell’Italia (1): Orvieto

di Francesco Annibali 23/07/14
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Un sussurro bianco dal cuore dell’Italia (1): Orvieto

Quando in epoca rinascimentale i termini ‘Greco’, ‘Grecanico’ e ‘Grechetto’ erano degli elogiativi generici - un po’ come il termine ‘barricato’ negli anni Novanta del secolo scorso - atti ad indicare quei vini talmente buoni da ricordare i bianchi provenienti dalla Grecia, il Grechetto della zona di Orvieto era una autentica superstar. Già elogiato da Plinio il Vecchio nella sua celeberrima Naturalis Historia, si trattava di un vino bianco leggero e abboccato, molto gradito alla corte papale, che aveva eletto la splendida cittadina umbra, impreziosita da una Cattedrale che da sola vale un lungo viaggio, a sede alternativa a Roma.
Da allora la fama dei vini bianchi di questa zona vinicola ha conosciuto una forte alternanza tra ribalta e dimenticatoio.
Anche oggi non si può di certo dire che tra gli appassionati di vino il termine ‘Orvieto’ sia il primo a venire in mente quando si parla di bianchi di un certo livello.
Attualmente vinificato quasi esclusivamente nella versione secca, quantomeno nelle interpretazioni dei produttori migliori, amico dell’acciaio e poco in confidenza – a nostro personalissimo avviso – con il legno piccolo, è un bianco di sottigliezze e di acidità sospesa, mai sottolineato. Un vino che di certo non brilla quanto a esplosività o espressività, in questo somigliando ad un grande bianco del nord, il Gavi. In entrambi i casi, si direbbe di disegni a matita su un foglio bianco, non di certo oli su tela, se così si può dire.
Un vino dunque molto più adatto al pasto che alla degustazione, poco amante delle temperature di servizio basse (un buon Orvieto, anche semplice, per la nostra esperienza ama una servizio attorno ai 14-15°), ma capace di rilasciare a tavola una piacevolezza complessiva e di ‘aprire’ il cibo con un notevole talento.
E di evoluzioni inaspettate nel tempo.
Gli esperti tendono a rintracciare il talento dell’Orvieto principalmente nei terreni della zona, quasi nessuno invece cerca di fare un collegamento con il mesoclima fornito dai laghi prospicienti, in particolare quello di Corbara, nel cuore della zona classica.
Ad ogni modo, la curiosità e il favorevole incontro con un paio di vini di eccezione ci ha spinto alla azienda Decugnano dei Barbi, faro della denominazione, alla cima di un colle vitato su tutte le esposizioni, a 300 metri sul mare.
Luogo del vino già in epoca etrusca, come testimoniato dalle cantine scavate nella sabbia, di proprietà per secoli della Curia Orvietana, Decugnano fu acquistata dalla famiglia Barbi nel 1973.
Oggi alla guida c’è Enzo Barbi, che nonostante la giovane età (vendemmia 1980, beato lui) mostra una consapevolezza da uomo navigato.
Sono un semplice vignaiolo. I miei colleghi coetanei che raccontano e credono di vivere un ritorno alle origini dimenticano che la contemporaneitàè imprescindibile. I contadini di una volta facevano una vita che nulla ha a che fare con la nostra. E per loro non si trattava di una scelta. Per favore non raccontiamo una Disneyland dell’agricoltura dove il messaggio, cioè il produttore, è più importante dell’oggetto prodotto, che è il vino.
Insomma, non ci sembra un caso se Enzo è anche l’attuale presidente del consorzio di tutela dell’Orvieto.

Doctorwine: Quando si parla di Orvieto le spiegazioni si focalizzano sempre sui terreni. Il lago di Corbara?
Enzo Barbi: Buona considerazione. Purtroppo non so rispondere, visto che quando sono arrivato qui il lago [che è artificiale, ndr] c’era già. Ad ogni modo aiuta lo sviluppo della muffa nobile, su questo non ci sono dubbi.

DW: L’Orvieto ha una immagine non adeguata alla qualità espressa, almeno se ci riferiamo ai prodotti migliori. Colpa degli imbottigliatori fuori zona?
EB: Non è possibile generalizzare. Tra gli imbottigliatori occorre distinguere tra vinificatori, che spesso fanno un buon lavoro, e assemblatori, una vecchia figura del dopoguerra che ancora resiste. Non dimentichiamo che la fortuna dell’Orvieto la fecero due aziende eccezionali che imbottigliano fuori zona, Antinori e Ruffino. Furono loro ad aprire il mercato USA. Forse l’Orvieto ha una similarità commerciale con il Soave, a partire dalla qualità media, che negli ultimi anni è buona. Ma anche il vertice della denominazione dà soddisfazioni. Attualmente sul mercato ci sono almeno una decina di etichette davvero raccomandabili.

DW: A proposito, come va il mercato?
EB: Per quanto riguarda la mia azienda non mi lamento, anche se è cambiato tutto da pochi anni a questa parte. Adesso l’estero conta per il 60%, negli anni Novanta contava il 10%. Viviamo con USA, Giappone e Regno Unito.

DW: E la Cina?
EB: Posso dirlo? A mio parere noi italiani la stiamo sopravvalutando commercialmente. Si tratta di vendite spot, e il motivo principale è che manca una ristorazione italiana diffusa che faccia da traino. E’ la ristorazione che traina il vino, ovunque. Poi i cinesi non amano il vino, tranne i rossi alcolici e colorati. Ma perché amano il colore e l’alcol. Il vino non riesce ad entrare nei loro rituali. Per la mia esperienza i grandi Chateau vengono utilizzati come regalistica aziendale. Raramente vengono stappati a tavola.

DW: Il talento dell’Orvieto bianco è figlio del terreno di tufo?
EB: Qui occorre fare chiarezza. Il terroir orvietano geologicamente non è uniforme. La zona meridionale è vulcanica, e i bianchi hanno una mineralità che vira verso la pietra focaia. La zona centrale è invece argillosa, le note floreali sono in primo piano. Il nord, a destra del fiume Paglia, dove si trova anche Decugnano, è invece sabbioso. Nel bicchiere c’è una mineralità meno sulfurea e più salmastra. Il nostro terreno è una sabbia scura, di origine pliocenica, piena di fossili di conchiglie facilmente visibili a occhio nudo.

DW: L’Orvieto è un raro caso di bianco italiano di livello figlio di un blend.
EB: Ed è giusto così. Io non farei mai un grechetto in purezza, nemmeno se ne avessi la possibilità. Troppo amarognolo nel finale di bocca, nonostante adesso abbiamo i cloni G5 e G109 che sono ottimi. Il procanico dà beva, è insostituibile. E amo un modesto quantitativo di chardonnay, che apporta frutto senza coprire.

DW: La cantina?
EB: Poco da dire, faccio una normale vinificazione in bianco con una breve macerazione a freddo. Utilizzo lieviti selezionati, stando molto basso con la solforosa. Tutto qui.

DW: Una volta l’Orvieto era sempre abboccato.
EB: Il motivo era semplicissimo: i lieviti indigeni non riuscivano a ultimare la fermentazione. Ma la muffa nobile non c’entrava niente. Cinquanta anni fa nessun contadino della zona sapeva distinguerla dalla grigia. La muffa nobile è recente, figlia del successo del Muffato della Sala di Antinori. E della diga che ha creato il lago di Corbara.





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