Campolongo di Torbe, la luce scura della Valle di Negrar (1)

di Francesco Annibali 14/06/16
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Campolongo di Torbe, la luce scura della Valle di Negrar (1)

Il taxi che percorre il breve tragitto dal centro di Verona in direzione nord ovest, verso Negrar, funge quasi da bus turistico: le colline sulla destra, praticamente tutte a vigna, dolci, eleganti, perfettamente antropizzate, svelano una architettura ricca e colta. Villini color pastello, che risaltano tra vigneti pettinati al millimetro di una regione benestante più o meno quanto la Baviera.

Siamo nella Valpolicella Classica, quella che va da Sant’Ambrogio a Negrar, ovvero il margine più occidentale di una zona d’oro del vino mondiale.

La valle delle molte cantine (vallis polis cellae) da anni gode di affari che vanno a gonfie vele.

Non solo grazie all’Amarone, che con il suo carattere rotondo e potente ha sbancato nei climi freddi (nord Europa e Canada in particolare) e negli Stati Uniti (dove è percepito come una sorta di Zinfandel), ma anche grazie al Valpolicella Ripasso, che si è guadagnato una fetta importante di mercato – e soprattutto ha fatto breccia nel cuore degli appassionati – come anello di congiunzione tra quell’ottimo vino di pronta beva che è il Valpolicella e la superstar da invecchiamento.

Un vino, l’Amarone (il termine è maggiorativo di 'amaro' come contrapposizione a 'dolce') che nasce appunto da un vino dolce (dunque con una sorte analoga al Sagrantino dell’Umbria): il Recioto. Una specie di Recioto ‘sbagliato’, nato negli anni Trenta del Novecento con il nome di ‘Recioto Amaro’ (dunque privo di residuo zuccherino) e riconosciuto nel disciplinare del Valpolicella del 1968 con il nome di Recioto Amarone. L'attuale differenziazione avviene a partire dal 1991, quando si distinse tra Recioto della Valpolicella (dolce, appunto) e Amarone (secco).

Ottenuto sempre da un blend di uve corvina, che dà struttura e magnifiche note di ciliegia, rondinella, colorata e speziata, molinara per l’acidità, e a volte oseleta, tannicissima, l’Amarone è un caso alquanto raro di passito rosso secco (gli zuccheri residui oscillano sempre tra 5 e 10 grammi per litro). Un vino che è diventato quel che è grazie anche all’enologo Nino Franceschetti, per anni consulente di Masi.

Come nelle altre più importanti zone rossiste nazionali, anche in Valpolicella si assiste ad un rifiorire di stili, anche se qui la variabile principale non è il tipo di legni o di rese per ettaro, ma la possibilità per le uve (ma solo di alcuni vigneti) di essere colpite dalla muffa nobile, che – ove ben gestita – aumenta chiaramente la morbidezza del vino finale, restituendo un Amarone dal carattere di grande suadenza.

 

 


 

 

Il ruolo di Masi 

Fuori discussione che nella zona, che può contare su un numero davvero elevato di grandi interpreti, Masi ricopra da sempre un ruolo di primissimo piano. Merito senz’altro del patron Sandro Boscaini, uno dei più importanti uomini del vino italiano, anche se forse meno noto agli appassionati di Angelo Gaja o del Marchese Antinori. Imprenditore di straordinario successo – fu tra i fondatori del Vinitaly, tanto per dirne una sola – Boscaini è riuscito a fare dell'azienda uno dei fari della zona, con uno stile chiaro e riconoscibile.

Uno stile che coniuga mirabilmente carattere territoriale e piacevolezza di beva, occhio al passato e apertura al futuro, con gli studi sull’appassimento che proseguono con i professori Scienza e Brancadoro dell’Università di Milano.

Il tutto si traduce, negli Amarone aziendali, in rigore esecutivo, sanità assoluta delle uve, controllo delle muffe nobili in base ai vitigni (che reagiscono diversamente, perché la muffa è un insieme di ceppi), controllo spasmodico dell’appassimento, lieviti inoculati (per la precisione: selezionati in loco e riprodotti, tenuti a – 80° nei laboratori dell’Università di Verona).

In questo modo il risultato è che a variare è solo il carattere della annata, con uno straordinario vino secco ma non asciutto, anzi morbido, dai tannini foderati ma vivi, proveniente dal vigneto Torbe di Negrar. Un vino luminoso di una luce scura, possente ma di incredibile piacevolezza di beva (ai limiti dell’immaginabile nella vendemmia 1995).

Vigna nota dal 1190 e cru dal 1958, il Torbe insiste su un terreno calcareo ricco di tufo vulcanico, con esposizione a sud ovest, a circa 350 metri sul mare. L’Amarone che se ne ottiene è unanimemente considerato da stampa e appassionati uno dei vertici qualitativi della zona.

DoctorWine: Perché avete deciso di produrre come cru proprio le uve del Campolongo di Torbe?

Sandro Boscaini: Mio padre a cavallo della seconda Guerra Mondiale curò una meticolosa e lunga ricerca, analizzando 27 veri cru della Valpolicella Classica. L'evidenza qualitativa e storica lo portarono poi a classificarne alcuni, il primo di questi è uscito nel mercato nel 1958 ed era il Campolongo Di Torbe. Dalla nostra anche la storia: risale al 1190 un documento che descrive i vigneti di Capavo - ora Campolongo Di Torbe - come i più adatti per un vino di grande struttura e personalità.

DW: Ha senso parlare di cru in un vino fatto con l’appassimento?

SB: Certamente. L’Amarone non è solo il frutto di una tecnica, l'appassimento, pur affascinante. È il risultato di un insieme di interazioni tra vitigni, microclima, suolo e tecnica di produzione. È mia opinione che, molto più che in altri vini, i vitigni usati per produrre Amarone siano di importanza capitale. Ad esempio, includere nell’assemblaggio finale un 20% di uva molinara o non usarla (in due Amarone prodotti nello stesso luogo e con le stesse modalità), come anche un 20% in più o in meno di oseleta, porta ad avere vini completamente diversi. I profili polifenolici (antociani, tannini) di queste due varietà sono completamente diversi e, logicamente, diversi saranno anche i vini. Altrettanto diverse corvina e corvinone, le due più importanti uve dell’Amarone: la prima ha acini più piccoli, con una buccia più sottile ma ricoperta da una maggiore quantità di cere rispetto al corvinone, che ha un maggiore rapporto polpa/buccia. Queste differenze sono solo alcune delle ragioni della più lenta disidratazione del corvinone rispetto alla corvina.

 

 


 

DW: Masi non smette di studiare e sperimentare la tecnica dell’appassimento. Quali sono stati i risultati più importanti ottenuti?

SB: Una delle scoperte più affascinanti di questi ultimi anni è che l’attività genica delle diverse cultivar non è uguale, quando gli acini vengono staccati dalla pianta. Come dimostrato da studi di biologia cellulare e molecolare, una volta colte, le uve modificano il proprio metabolismo in rapporto alle nuove condizioni ambientali e il proprio patrimonio genetico. Alcuni geni vengono ‘spenti’, altri ‘accesi’, diciamo così. Non necessariamente subito, ma con tempistiche diverse per ciascuna varietà per tutta la durata dell’appassimento. Ad esempio, l’aumento del grado zuccherino negli acini in via di disidratazione non segue in maniera lineare il calo peso, perché dipende in parte anche da altri costituenti delle bacche determinati geneticamente in ogni cultivar. In questo la corvina si conferma molto adatta all’appassimento: a parità di condizioni ambientali, si disidrata molto più lentamente di altre uve e come l’oseleta (ma a differenza di altre varietà), tende a comportarsi in modo simile anche in annate molto diverse. Le faccio un altro esempio: il cabernet sauvignon, che è una uva notoriamente eccezionale, disidratando acquista facilmente note amare non particolarmente piacevoli.

Sempre importante poi lo studio di nuove tecnologie atte a garantire una più precisa cinetica di disidratazione delle uve: intervenendo su temperatura, umidità e velocità dell’aria ambientali, apportando migliorie all’appassimento controllato. Lo scopo principale è quello di ridurre al minimo i processi ossidativi nelle uve.

[A domani, per la seconda parte della intervista e la verticale di Amarone Campolongo di Torbe]

  





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